Sono passati ben 25 anni a far data dalla scomparsa di Paolo Battistuzzi. Ho recuperato, in archivio, una lettera di Valerio Zanone che , nel 2008, lo ricorda a modo Suo. Splendido.
Valerio Zanone
Roma, 8 ottobre 2008
Il 18 novembre ricorre il decennale dalla morte di Paolo Battistuzzi. Alessandro Pilotti ha sollecitato una iniziativa per ricordarlo. E’ da ricordare la sua opera di deputato in tre legislature e presidente del gruppo liberale alla Camera; amministratore e dirigente della RAI; assessore alla cultura nel comune di Roma; vicesegretario del partito liberale già con Malagodi; fondatore e direttore dell’Opinione nel decennio della mia segreteria. Le nostre stanze in via Frattina erano separate dal cortile interno. Sapevamo di esserci dalle luci alle finestre, fra le poche che restavano accese fino alle 22.
E’ in progetto la pubblicazione entro qualche mese di una raccolta dei suoi scritti politici e discorsi parlamentari. Ma intanto, per il decennale, la forma più discreta per ricordarlo secondo l’indicazione di Enza e Andrea è la distribuzione fra quanti gli furono amici del libro pubblicato in franchigia dall’editore riminese Massimo Panozzo.
“La civiltà occidentale è una civiltà di libri e di lettori di libri”, scriveva Paolo. Per lui leggere era “una forma di felicità”. Passava le sere sui libri e scriveva di libri.
Un suo opuscolo intitolato Lotta ai privilegi è un viaggio mentale intorno agli scaffali liberali della sua biblioteca. Vi si tratta dei libri sui quali si è formata la nostra generazione liberale: Abbagnano, Aron, Beveridge, Bobbio, Dahrendorf, Hayek, Popper, Sartori . . . Croce ed Einaudi, come d’obbligo, ma forse ad entrambi Paolo preferiva Gobetti, quelle idee liberali “spettinate come i suoi capelli”, quell’imprenditore di cultura capace di pubblicare in una manciata di anni centoventi titoli, che Paolo aveva raccolto sullo scaffale più prezioso.
Anche quello che Enza ha voluto regalarci per il decennale è un libro che parla di altri libri. Già il titolo è una citazione libresca: Di lauri e di limoni profuma la notte di Siviglia in cui il Grande Inquisitore interroga e condanna Gesù risorto nel romanzo di Dostojewskij, oggetto di appassionate discussioni, anch’esse per lo più notturne, fra Paolo Battistuzzi e Giovanni Malagodi.
Saper leggere non è un lavoro per tutti. Ceronetti lo paragona al lavoro del palombaro (“andare giù, esplorare”). Per Kafka il libro è un’ascia che spezza il gelo dell’anima. L’anima gentile di Paolo Battistuzzi ci trovava piuttosto il luogo per custodire il ricordo, e fissare la fantasia sulla carta.
La nostra generazione ha consumato sui libri il tempo che adesso si spende sui monitor e con gli sms. Ma il nostro non è stato un investimento sbagliato, perché la fantasia stampata può essere più vera della realtà. Sartre da bambino aveva visto le scimmie solo sull’enciclopedia, e quando le vide allo zoo gli parvero “meno scimmie”. Lo stesso può dirsi del Piemonte dove Paolo Battistuzzi era nato: il Canavese dei weekend è meno Canavese di quello di Gozzano, le Langhe dell’agriturismo sono meno Langhe di quelle di Pavese.
Ringrazio Enza, che con il libro a lei dedicato da Paolo, ci invita a ritrovare “la felicità del leggere”.
Valerio Zanone
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Franco Chiarenza da " Il liberale qualunque"
Ei fu. De Berlusconibus
Così avevo titolato il mio “pezzo” sul Cavaliere, faticosamente elaborato su sollecitazione dei pochi affezionati lettori di questo blog,
stupiti che il “liberale qualunque” non avesse nulla da dire
sull'inventore del “partito liberale di massa”.
In effetti con una mossa a sorpresa, di quelle in cui eccelleva,
avendolo letto in anteprima come è possibile soltanto ai fantasmi,
“lui” ha spinto il mio dito sul tasto sbagliato del computer e in un secondo
tre cartelle si sono evaporate.
Forse è meglio così: il tempo trascorso mi consente di essere più tollerante.
Comincio da capo al netto di tante celebrazioni, beatificazioni, dannazioni, commenti psico-sociologici, compiacenze morbose sul suo harem continuamente rinnovato, analisi dettagliate sulla complessa giurisprudenza che ha caratterizzato il suo rapporto con la magistratura.
Ei fu. Chi fu in realtà poco importa: un furbo palazzinaro? Un imprenditore che aveva capito prima di altri l'importanza fondamentale della televisione?
Un abile piazzista che raccoglieva i voti con le stesse tecniche usate per conquistare i consumatori? Un presidente straordinario di una squadra di calcio? Oppure un imbroglione funambolo che riusciva abilmente a mescolare la dimensione pubblica con quella dei suoi interessi privati?
Un mafioso espresso dalla “cupola”?
Un massone nascosto nella P2 di Licio Gelli?
Fu tutto questo ed altro; fu – come ha detto nella sua omelia l'arcivescovo di Milano – un uomo che amava la vita.
E l'amava talmente da cospargere intorno a se un'immagine falsa di piaceri illimitati, di relativismo morale, di ottimismo costruito sull'illusione che chiunque potesse plasmare la propria esistenza sul modello che impersonava.
Ma – ripeto – al liberale qualunque chi fosse Berlusconi, per quali motivi decise – dopo il fallimento di Mario Segni – di scendere in politica, con quali risorse abbia costruito il suo impero non importa granchè;
voglio astenermi da qualsiasi giudizio morale. Importa invece cosa ha fatto (o non ha fatto) nella dimensione politica.
Chi è stato dunque l'uomo politico Silvio Berlusconi che ha dominato la scena come nessun altro negli ultimi quarant'anni?
Un liberale?
Domanda lecita perchè tale sempre si è dichiarato.
Peccato che non lo sia mai stato, non per ostilità preconcetta ma semplicemente perchè non sapeva cosa significava esserlo.
Concetti come stato di diritto, libertà di espressione, tolleranza per le diversità, pluralismo politico, dialettica parlamentare, ecc. erano lontanissimi dal suo modo di pensare; aveva una vaga idea del liberismo economico
(che è altra cosa dal liberalismo) che si esprimeva in un
“laissez faire, laissez passer”
tradotto concretamente in continui compromessi con le forze in gioco con cui necessariamente doveva confrontarsi.
Si potrà obiettare che però di “liberali doc” si era circondato, soprattutto nei primi tempi: Biondi, Urbani, Altissimo (con qualche riserva), Pera, Martino, Costa, e molti altri.
Ciò avvenne perchè con lo scioglimento traumatico del PLI i liberali erano rimasti senza casa e alcuni di essi ritennero che Berlusconi col suo impeto dirompente e la sua ingenuità politica potesse non soltanto fornirgliene una ma anche lasciarsi guidare nella sua conduzione.
Le cose andarono diversamente e dopo essersene servito per dare una vernice di credibilità alla propria leadership il cavaliere
li abbandonò al loro destino.
Un socialista?
No, se non altro perchè rifuggiva da ogni tentazione egualitaria e
di Marx e Lenin conosceva quel tanto che bastava per farne oggetto del suo anti-comunismo viscerale che esibiva in ogni occasione e su cui fondava la propria legittimazione di leader della destra.
Ma fu amico di Craxi senza il cui aiuto non avrebbe mai potuto realizzare quel duopolio televisivo che è stato decisivo per il suo successo.
Nel progetto craxiano le televisioni private dovevano servire a contrastare la cultura catto-comunista che occupava nella RAI posizioni preminenti,
ma al di là di ciò tra il segretario socialista e Berlusconi non vi fu mai un disegno politico condiviso.
Craxi immaginava un futuro bipolare di tipo tedesco con un partito conservatore di ispirazione cristiana e una social-democrazia in grado di raccogliere le istanze ideali della sinistra.
Berlusconi invece ammirava i modelli paternalistici e illiberali dei regimi autoritari come quelli che si erano affermati in Russia, in Ungheria, in Turchia.
Però se socialista non fu, dei socialisti, anch'essi rimasti orfani dopo l'abbattimento di Craxi, largamente si servì, non soltanto per alimentare i quadri delle sue televisioni ma anche per ereditare gran parte dei loro quadri dirigenti specialmente a Milano. Ex socialisti come Tremonti, Brunetta e tanti altri furono, a fasi alterne, suoi collaboratori diretti.
Un fascista?
No, fascista non fu mai; al contrario, proveniva da una tradizione familiare anti-fascista. Ma con i neo-fascisti invece stabilì rapporti cordiali convincendoli a mandare in frantumi le anticaglie nostalgiche prive di prospettiva per trasformarsi in un moderno partito nazionalista;
trovò in Fini l'interlocutore adatto e soltanto così potè realizzare l'unica vera operazione politica che – nel bene o nel male – gli va attribuita:
l'alleanza elettorale con la Lega al nord e con AN al sud,
imperniata sulla sua personale fideiussione politica.
Forza Italia , che partito non era né di nome né di fatto, rappresentò il collante attorno al quale la destra dimostrò di essere maggioritaria nell'elettorato.
Un conservatore?
Dipende da cosa si intende per tale.
Il mondo imprenditoriale, salvo poche eccezioni, accolse la sua vittoria elettorale come una svolta decisiva per sconfiggere definitivamente il dirigismo corporativo che soffocava il Paese
(i famosi “lacci e lacciuoli” stigmatizzati da Guido Carli)
ma in realtà tutte le proposte dell'ufficio studi di Confindustria si sono arenate fuori dai cancelli di Arcore perchè la vera scelta del presidente fu quella di lasciare tutto com'era fingendo di cambiare tutto:
una perfetta sintesi della filosofia gattopardesca che coincideva in maniera impressionante non tanto con la vecchia DC (che era una costruzione complessa al cui interno convivevano differenti strategie politiche e sensibilità sociali) quanto piuttosto con la prassi di governo della sua parte più conservatrice, i cosiddetti “dorotei”.
Nè né.
Penserà la storia, man mano che il tempo avrà steso il suo manto pietoso sulle imperfezioni umane del personaggio, ad approfondire la figura complessiva di Silvio Berlusconi.
Ma da liberale non posso esimermi dall'affermare che la sua leadership, intrinsecamente rivoluzionaria per il modo in cui aveva sconfitto i progetti per trasformare l'Italia in un laboratorio politico dirigista e neutralista egemonizzato da una sinistra intrinsecamente illiberale
(come si profilava il compromesso storico immaginato da Moro e Berlinguer)
è stata un'occasione tradita.
Non per la mancata costituzione di un “partito liberale di massa”,
ma per non avere avviato – avendone la possibilità –
quella rivoluzione culturale liberale che l'Italia
attende sin dal compimento della sua unità.
Valerio Zanone, commemorando Bobbio nell'ormai lontano 2013, affronta il problema della Libertà in irredimibile contrasto con il fascismo e l'autoritarismo, ed indi, il problema del decadimento della classe politica come fenomeno che impedisce l'affermazione della democrazia in senso compiuto. Si tratta di riflessioni di assoluta attualità che aiutano a comprendere la gravità delle condizioni di convivenza cui siamo costretti.
LA TORINO DI BOBBIO
(Valerio Zanone - 25 febbraio 2013)
Sono grato a Luigi Bonanate , prima ancora che per l'invito, per il contributo che Bonanate ha prestato alla pubblicazione del libro, a conclusione del comitato nazionale per il centenario della nascita di Norberto Bobbio.Il presidente del comitato Gastone Cottino ha voluto che l'opera dedicata a riordinare gli scritti e gli archivi di Bobbio si concludesse con una descrizione di gruppo, come i quadri che si vedono nelle pinacoteche: intorno alla figura di Bobbio, che è fuori scena ma evocata quasi ad ogni pagina, campeggiano i ritratti di Leone Ginzburg, Giorgio Agosti, Alessandro Galante Garrone, Massimo Mila, Giulio Einaudi.E come accade nei quadri, per capire il gruppo va guardato il paesaggio sullo sfondo: che è il paesaggio inconfondibile di Torino rivissuta attraverso la giovinezza e le vite di quei personaggi, nel tempo dell'antifascismo e della liberazione; già nell'Italia segregata degli anni trenta, vite intellettuali aperte alla cultura internazionale; ed insieme strettamente legate ai luoghi ed ambienti subalpini; i luoghi della cultura che circola da secoli intorno al palazzo che ci ospita, poche decine di ettari dove si concentrano le biblioteche, le sedi universitarie, i monumenti maggiori della storia torinese; e visibili al fondo delle strade la collinadelle domeniche e le montagne delle vacanze; ma soprattutto ambienti decisivi per gli incontri che segnano la vita.Certo l'aula di via Po, dove nel 1928 Agosti e Galante Garrone, insieme ad Aldo Garosci, Lodovico Geymonat, Mario Einaudi , Modesto Soleri si scontrano con i fascisti aggressori di Francesco Ruffini. Certo la casa editrice Einaudi, ospitale verso la letteratura russa tradotta da Ginzburg e la letteratura americana tradotta da Pavese. Ma prima e più, il liceo statale Massimo D'Azeglio, che per loro ( e si parva licet anche per noi ), è stato più di una scuola, meglio è stato una scuola non solo di studio ma di vita; quasi un imprinting. Penso da sempre che ciascuna generazione trovi la sua impronta in un anno memorabile. Ho avuto finora il tempo di vederne quattro: il 1945 con la liberazione, il 1968 on la contestazione, il 1989 con la caduta del Muro, il 2001 con la caduta delle Twin Towers.Ebbene, nella generazione torinese cui appartengo, quella cresciuta con l'impronta del 1945, l'ambiente del D'Azeglio è stato determinante, per la tradizione dei suoi docenti ed anche per la composizione dei suoi studenti. Per cognizione più diretta comincerò dai secondi.Nei primi anni cinquanta, forse anche dopo, la localizzazione in via Parini favoriva nel D'Azeglio una convergenza interclassista. Ci venivano dalla Crocetta i figli dell'alta borghesia, da porta Nuova i pendolari della cintura, dal borgo commerciale di via S. Secondo i ragazzi del ceto medio. Il comportamento dei professori, rivestiti di una dignità sociale inversamente proporzionale agli stipendi, era, come si dice della legge, eguale per tutti. Avevamo ogni mattino quattro o cinque ore per sperimentare la società degli eguali.E quanto ai professori, c'era in alcuni di loro il ricordo personale, in tutti il lascito morale, dei docenti che nel ventennio avevano dato la prova del dissenso dalla dittatura.Mio padre studente al D' Azeglio aveva conosciuto il professore di italiano Umberto Cosmo. Siccome si legge ogni tanto che il fascismo sarebbe accettabile se non avesse perduto la guerra, o almeno se non avesse ceduto ai nazisti sulle leggi razziali, é il caso di ricordare qualche motivo antecedente di antifascismo. Nel 1926 Umberto Cosmo ricevette dal ministro dell'Istruzione Pietro Fedele l'intimazione di discolparsi entro quindici giorni dalla sua incompatibilità rispetto alle "direttive politiche del governo". Cosmo rispose che a scuola non aveva mai fatto propaganda politica; ma quanto alle opinioni degli "uomini nati e cresciuti nella libertà" egli non riconosceva altro giudice che la coscienza: Perciò, aggiunse, "in quest'ora così grave per me, così dolorosa per la mia famiglia" ( sapeva bene cosa lo aspettava, aveva scritto quasi per presagio un libro intitolato "con madonna povertà" ) Cosmo augurava al suo successore di portare la stessa libertà e dignità sulla cattedra dalla quale egli era costretto a scendere. Dunque, quando si parla dell'impronta antifascista ricevuta al D'Azeglio, quella lettera del 1926 basta a legittimare il 1945 come anno memorabile della nostra generazione.In quegli anni era studente al D'Azeglio un altro personaggio del quintetto, Massimo Mila. Il ricordo indiretto che ho di Mila offre una ulteriore considerazione, per la sintesi che negli anni più duri i dissenzienti dalla dittatura seppero trovare fra culture politiche altrimenti non coniugabili. Mi è accaduto molti anni fa di visitare la casa di Massimo Mila, ai piedi della collina di Superga, e dare uno sguardo ai suoi libri. C'erano gli scritti storiografici di Croce, stampigliati sulla copertina con il timbro di Regina Coeli. Il Croce mirabilmente descritto da Bobbio nei saggi di politica e Cultura, aveva rischiarato con la luce della libertà il buio del carcere anche ai comunisti come Mila.Quell'antifascismo aveva d'altra parte radici lontane, anch'esse molto subalpine, nei dissenzienti del Settecento studiati da Gobetti, e poi nella corrente democratica del Risorgimento, che non risultò vincente ma ha lasciato anch'essa la sua impronta, riaffiorata con evidenza nell' anniversario dell'Unità d'Italia.Nel Risorgimento anche fra i democratici, i protoradicali, la sinistra del tempo, era autentico il sentimento patriottico, che poi diede prova di sé nei sacrifici della Grande Guerra; restò estraneo alla retorica del ventennio; e infine riemerse, con il nome di secondo Risorgimento, nella Resistenza, nella Liberazione, nella Repubblica e nei principi fondamentali della Costituzione, che sono gli eredi in linea diretta della costituzione romana del 1849.Di ciò, fra i personaggi del quintetto l'interprete più significativo anche per la sua professione di storico è Galante Garrone, al quale anche si devono, per i decenni successivi, le cronache del disincanto, che sempre accompagna la transizione dalla poesia dei letterati alla prosa del governo.E con il disincanto dopo gli anni cinquanta si chiude anche il trentennio di storia della cultura torinese, da Gobetti a Pavese, in cui Norberto Bobbio ci ha lasciato la narrazione di molti dei personaggi fin qui richiamati, per arrivare alla definizione in chiaroscuro del piemontesismo inteso come "idea che vi sia un carattere particolare del piemontese, di cui occorre trovare l'origine storica, la peculiarità, le affinità e le differenze rispetto alle altre figure regionali, i pregi e i difetti, soprattutto i pregi".
" Il nostro Bobbio" è il titolo della celebrazione pronunciata da Luigi Bonanate davanti al Capo dello Stato. Bonanate avverte di aver mutuato l'uso del possessivo dallo stesso Bobbio, che in quel modo usava accostarsi ai filosofi preferiti. Bonanate ricorda poi che Bobbio era uno di quei maestri che scendono volentieri dalla cattedra per mettersi in discussione con tutti e così, scrive Bonanate "ciascuno di noi ha potuto avere il suo Bobbio".Ciò è tanto vero che non soltanto i suoi continuatori ed interpreti nell'accademia, ma molti comuni cittadini hanno avuto la fortuna di avere un loro Bobbio, e non è dunque per vanità che adesso vorrei dire qualcosa del mio; poiché nello sterminato epistolario di Bobbio anch'io conservo un mazzetto dei suoi autografi, che nella scrittura degli ultimi anni spaziavano ogni parola ed un poco anche le singole lettere, quasi a far circolare dentro le parole la sospensione del dubbio metodico.Si comincia dal 1971, quando Bobbio mi incaricò di scrivere per il Dizionario di politica della UTET alcune voci fra le quali "laicismo" (allora non era ancora prescritto derubricarlo in "laicità").La politica entra nel carteggio nel 1978, con un biglietto dove Bobbio scrive "La ringrazio di essere stato il primo e l'ultimo a pensare a me come a possibile candidato alla presidenza della Repubblica"'Era accaduto che dopo le dimissioni di Leone l'alternanza favorisse una candidatura laica. Presi l'iniziativa di avanzare in un'intervista il nome di Bobbio che però suscitò la diffidenza di Craxi, piuttosto incline a sospettare congiure nel suo accampamento. In realtà la mia idea alquanto ingenua era soltanto che dopo gli scandali servisse insediare al Quirinale il mentore della trasparenza,la democrazia che svela gli arcana imperii. Il nome di Bobbio comparve in alcuni scrutini alternato a quello di Antonio Giolitti, poi alla sedicesima votazione tutti convergemmo su Sandro Pertini, neppure lui peraltro nelle grazie del segretario socialista. Bobbio ritornò a Torino con visibile sollievo, nel 1984 fu nominato da Pertini senatore a vita.Nel l99l fra i cinque senatori a vita fu nominato un altro torinese, Gianni Agnelli. Ricordo in quell'anno per l'anniversario dell'Unità l'apertura straordinaria dell'aula del parlamento subalpino dove i due senatori sedevano accanto sulle panche tarlate dei padri della patria. Era la rappresentazione fisica dei due titoli di eccellenza della città nel mondo, l'alta cultura e la grande industria.Sul binomio Bobbio/Agnelli si trova in un libro di Aldo Cazzullo un aneddoto divertente. Negli anni ottanta Bobbio inizio la sua collaborazione alla Stampa, durata fino agli ultimi anni. Con lui scrivevano sul giornale altri personaggi della cultura torinese riconducibili alla tradizione dell'azionismo. L'aneddoto che circolava allora nella redazione della Stampa era la visita di un noto finanziere che sentendo dire dal direttore "qui abbiamo molti azionisti" aveva risposto meravigliato "credevo che l'azionista unico fosse Agnelli".Negli anni ottanta i rapporti epistolari erano passati dal Lei al Tu, e nell'ultima lettera ritrovata, che è della fine del 1997, Bobbio scriveva: " fra un liberale di una certa specie come sei tu, ed un socialista di una certa specie, come credo di essere io, ci sono molti punti di convergenza". Perciò mi considero autorizzato a dire ancora qualche parola su ciò che Bobbio ha significato per un liberale della mia specie. Come scrisse più volte, Bobbio privilegiava nella letteratura politica cinque classici (Hobbes, Locke, Rousseau, Kant, Hegel), e cinque moderni (Croce, Cattaneo Kelsen Pareto, Weber). Penso che dei cinque classici due soltanto, Locke e Kant, possano collocarsi sull'asse centrale del liberalismo; mentre fra i cinque moderni mi riesce difficile trovare un filo conduttore comune.Peraltro è lo stesso Bobbio nel saggio del 1955 su "Benedetto Croce e il liberalismo", a scrivere: "chi volesse oggi capire il liberalismo non mi sentirei di mandarlo a scuola da Croce . Gli consiglierei piuttosto di leggere i vecchi monarcomaci e Locke e Montesquieu e Kant, il Federalist e Constant e Stuart Mill. In Italia più Cattaneo che non gli hegeliani napoletani, compreso Silvio Spaventa; e gli metterei in mano più il Buongoverno di Einaudi che non la Storia come pensiero e come azione,che pure fu il libro certamente più importante dei movimenti di opposizione" (le letture carcerarie di Mila, appunto).Insomma fra i due cataloghi, quello dei dieci privilegiati da Bobbio e quello da Bobbio consigliato ai liberali, soltanto pochi nomi sono in comune. E la spiegazione potrebbe forse cercarsi nella missione stessa che Bobbio attribuiva agli uomini di cultura, quella di seminare dubbi piuttosto che raccogliere certezze.Ciò che i liberali della mia specie hanno cercato nel magistero di Bobbio non è tanto la ortodossia del liberalismo teorico quanto la cognizione dei suoi limiti storici, o come Bobbio diceva anche a proposito della democrazia, delle sue promesse non mantenute.Su Bobbio filosofo del dubbio si è detto tanto o forse anche troppo, perché nel suo pensiero sempre aperto al confronto civile non mancavano fondamenti di certezza di cui anche gli siamo debitori. Cito almeno tre certezze fondamentali.In primo luogo la certezza della democrazia, che è sempre in arretrato con le sue promesse eppure è la sola strada per procedere: "l'unica via di salvezza è lo sviluppo della democrazia". Il termine "sviluppo" non convinceva Einaudi, che ci avvertiva un accento forestiero. Può darsi che proprio in quella accezione Bobbio l'abbia usato, nel senso proprio di rimozione dei nodi che avviluppano, di liberazione dai lacci che legano gli individui nelle restrizioni della diseguaglianza sociale.Poi, la certezza dei diritti individuali che anch'essi si sviluppano nella sequenza delle epoche storiche, dai diritti civili del Settecento ai diritti politici dell'Ottocento ai diritti sociali del Novecento, fino alla quarta generazione dei diritti che è stato il taglio prospettico degli scritti di Bobbio negli anni novanta.Ed anche , ma problematica come una continua scommessa, la certezza nella libertà, quale puo cogliersi nel confronto fra due scritti di Bobbio, del 1968 e del 1986. Nel Profilo ideologico del novecento, di fronte all'ondata contestativa del 1968 Bobbio aveva scritto: "la libertà si può anche sprecare. Si può sprecarla fino al punto di farla apparire inutile". Ma alla ristampa del Profilo nel 1986 Bobbio aggiunse in postfazione : "Francamente non mi sentirei più di dire che la libertà sia stata inutile.Si può essere liberi per convinzione o per assuefazione. Non so quanti italiani siano veramente amanti convinti della libertà. Forse sono pochi. Ma molti sono coloro che avendola respirata per molti anni non ne potrebbero più fare a meno, anche se non lo sanno."Qui possiamo ritornare alle prime pagine del nostro libro, al quaderno clandestino del 1932 dove Leone Ginzburg scriveva della politica che si risolve in amministrazione quando appunto la libertà sia diventata patrimonio abituale.Ma finché la libertà non sia acquisita come condizione abituale e non sia garantita come patrimonio comune, la società civile non può disertare dalla vita pubblica.Pensando al tragico destino che lo attendeva, assumono il tono di una sfida eroica le parole di Ginzburg: "Ci si libera dalla politica attraverso la politica".Negli ultimi articoli di Bobbio sulla Stampa ritorna sovente la presa di distanza dei cittadini dalla politica , la lontananza che si aggrava in distacco e poi in rifiuto. Ma una democrazia abituata alla libertà deve tenere fede a Ginzburg, solo nella buona politica può esserci la liberazione dalla cattiva politica. E' il caso di pensarci anche stasera.
(prefazione di Valerio Zanone alla recentissima ristampa anastatica per Gabrielli Editori, del volume di Bortolo Belotti già pubblicato da “Unitas”nel 1925 e titolato “La parola di Camillo Cavour”)
L'istituto per la storia del Risorgimento ha di recente pubblicato, a cura di Domenico Maria Bruni, la Cronaca di Roma di Nicola Roncalli(1). Alla data dell'8 giugno 1861 vi si legge che "la polizia intimò ai caffettieri, sotto pena di arresto, di non fare contemporaneamente i sorbetti di limone, fragola e pistacchio, formanti i tre colori". Quel giorno, mentre a Roma i gendarmi pontifici davano la caccia ai gelati tricolori, nella sobria cappella di Santena Camillo Cavour era sepolto accanto al nipote Augusto, caduto in battaglia a Goito nel 1848. Il giorno prima i funerali del presidente del Consiglio avevano attraversato Torino fra una folla di militari, cittadini e contadini dei poderi del Conte. C'era tutta la città ad eccezione della famiglia reale, a prova della meschina antipatia del Re verso il suo primo ministro. Ma insieme alla cittadinanza torinese era presente in spirito anche il comitato nazionale romano, che soltanto il 15 giugno riuscì a diffondere il suo comunicato: "Romani! Una grande sciagura ha percorso la nostra patria, e il cuore di ogni vero italiano piange oggi lagrime amarissime sulla tomba del conte di Cavour" (2) Nel manifesto del comitato romano Cavour assumeva la statura del profeta biblico: "Simile a Mosè poté liberare il suo popolo dalla servitù straniera, poté condurlo sui limiti della terra promessa, ma gli fu vietato di entrarvi, pago della certezza che quel popolo avrebbe avuto una patria".
Adesso si avvicina, insieme al 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia, anche quello della morte del suo maggiore artefice. Ne verranno nuovi apporti alla già sterminata bibliografia cavouriana e fra essi, dopo la prima edizione del 1925, il libro La parola di Camillo Cavour di Bortolo Belotti, ristampato per iniziativa del nipote Gianluca La Villa.Il liberale bergamasco Bortolo Belotti ha trovato nel 2007 un eccellente biografo in Ivano Sonzogni.(3)Bortolo Belotti nacque a Zogno in Val Brembana il 26 agosto 1877 da famiglia della borghesia bergamasca. Dopo la prima formazione in collegi religiosi studiò giurisprudenza al collegio Ghislieri di Pavia e nel 1900 si avviò alla professione di avvocato civilista a Milano. Iniziò presto anche il corso della vita pubblica come consigliere comunale prima a Zogno poi a Milano, e consigliere provinciale di Bergamo.Nel 1913 fu eletto deputato al Parlamento nella lunga legislatura del tempo di guerra, e fu rieletto nel 1919 e nel 1921. Nel 1919 fu sottosegretario al Tesoro nel governo di Nitti, nel 1921 ministro dell'Industria nel governo di Bonomi.All'attività politica ed alla professione Belotti accompagnava studi umanistici e ricerche storiche sulla sua terra, quali la biografia di Bartolomeo Colleoni ed una ponderosa Storia di Bergamo. La sua vita sarebbe stata quella di un tranquillo borghese liberale di cultura e mentalità ottocentesca, fedele alla tradizione della Destra Storica e devoto alla memoria di Cavour, se dopo lo Grande Guerra l'Italia giolittiana non fosse stata sconvolta e rapidamente travolta dall'insorgenza del fascismo, verso il quale Belotti manifestò l'iniziale condiscendenza e la tardiva resipiscenza purtroppo comuni alla classe liberale del tempo.Belotti partecipò al congresso fondativo del partito liberale italiano che si tenne in Bologna dall'8 al 10 ottobre 1922, ormai alla vigilia della marcia su Roma. I liberali si organizzavano in partito quando già socialisti e popolari avanzavano con i propri apparati sulla strada aperta dalla proporzionale. E la proporzionale a sua volta era il portato del suffragio universale che la democrazia liberale aveva accettato prima della grande guerra; e la guerra come scrisse Missiroli aveva "affilato il suffragio come la selce affila una lama".Le sparse membra del parlamentarismo e dell'associazionismo liberale si raccoglievano a Bologna quasi alla vigilia della marcia su Roma, per cercare di svolgere nei confronti del fascismo incipiente un ruolo che inizialmente parve poter essere di raccordo con la classe di governo tradizionale; ma che in pochi anni dovette convertirsi in una opposizione di testimonianza. Le consumate saggezze parlamentari della classe liberale poco potevano contro lo scatenamento della piazza. Quell'anno 1922 fu dominato da quella che De Ruggiero chiamava "la plebe apolitica". Venne il fascismo, e molti anni sarebbero occorsi perché si formasse almeno una cognizione chiara circa la natura del fenomeno.Il congresso di Bologna intendeva riunire le associazioni ed i gruppi che nelle elezioni del 1919 si erano presentati con una varietà di nomi diversi, ed i maggiori contrasti congressuali furono sul nome da dare al partito. Molti, in particolare le forti delegazioni piemontesi, propendevano per il nome di Partito liberale democratico, per distinguersi da nazionalisti e conservatori. Alla fine prevalse a maggioran