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Partito politico membro di diritto del Movimento Europeo - Italia


Meglio De Gaulle di Renzi.

Charles De Gaulle, durante la seconda guerra mondiale, fu animatore e punto di riferimento della resistenza militare francese contro il nazismo e il fascismo. Schierò le forze armate rimaste a lui fedeli a fianco degli Inglesi; contribuì in questo modo a salvare parzialmente l’onore della Francia, dimostrando che c’era una alternativa al regime collaborazionista di Vichy. Negli anni Sessanta dello scorso secolo, De Gaulle rese un altro rilevante servizio storico alla sua Patria: contribuì a risolvere la crisi indotta dalla volontà dell’Algeria di rendersi indipendente dalla Francia. Riconobbe il diritto degli Algerini di autodeterminarsi, come meglio ritenevano. Lui, che era militare, dovette fronteggiare militari francesi ribelli, i quali volevano fare un colpo di stato e precipitare la Francia nella guerra civile. Eventi drammatici, che facevano seguito alla messa in discussione dell’importante Impero coloniale francese e alla sconfitta subita dai francesi in Indocina.

Per rafforzare i poteri del governo legittimo, De Gaulle realizzò, in più tappe, il mutamento della forma di governo: si passò da un sistema parlamentare ad una repubblica cosiddetta "semipresidenziale". Il mutamento consisteva, in primo luogo, nel fatto che il Presidente della Repubblica, cioè il Capo dello Stato, venisse ora eletto, non da un collegio ristretto di parlamentari, ma direttamente dal Corpo elettorale dell’intera Nazione, a suffragio universale. Il Presidente diventava simbolo di unità, al di sopra delle fazioni e dello spirito di parte.

La Francia è un Paese, non soltanto molto bello, ma plurale, con rilevanti differenze storiche, culturali, urbanistiche, artistiche, da zona a zona, esattamente come è avvenuto in Germania, o in Italia. Il Presidente riconosce e difende il pluralismo, ma con la sua stessa carica afferma, nel contempo, il valore della unità.

Nella forma di governo francese, il Presidente della Repubblica dispone, come meglio ritiene, dei poteri di governo. Nomina un Primo ministro ed i singoli ministri. Può revocarli in qualsiasi momento. A differenza di quanto avviene nella forma di governo propria degli Stati Uniti d’America (Presidenzialismo), in Francia non si riscontra una separazione tendenzialmente netta fra i diversi poteri.

De Gaulle era parte integrante della tradizione europea: così il Primo ministro francese non può disinteressarsi degli orientamenti del Parlamento (l’Assemblea Nazionale), ma è figura di raccordo. Nelle vicende della Quinta Repubblica francese il più importante partito che ha espresso il Presidente della Repubblica è sempre riuscito, di norma, a dirigere politicamente il Parlamento. Dopo l’uscita di scena di de Gaulle, nel 1969, ciò si è verificato quando il potere di governo era detenuto dal Partito gollista, come ai tempi di Georges Pompidou, o di Jacques Chirac; o era detenuto dai liberali centristi di Valery Giscard d’Estaing; o dal Partito socialista, il cui più significativo esponente è stato François Mitterand. Qualora il Primo ministro non riesca ad avere buoni rapporti con l’Assemblea Nazionale, il Presidente della Repubblica lo sostituisce con altra persona che garantisca esiti migliori.

L’attuale Presidente, Emmanuel Macron, incontra maggiori difficoltà proprio perché non è sostenuto da un vero partito, ben strutturato, radicato nelle diverse zone del Paese.

È importante che si comprenda che nella forma di governo semipresidenziale il ruolo del Parlamento non è meramente decorativo. A partire dal 1688, anno in cui in Inghilterra, si compì la cosiddetta rivoluzione "gloriosa" (tale, perché senza spargimento di sangue), sono profondamente penetrati nella cultura europea la concezione e il mito della sovranità del Parlamento, rappresentante della Nazione. Concezione che ha determinato un decisivo cambio di mentalità: in precedenza il sovrano nominale (ossia, il re) si riteneva avesse poteri assoluti; in seguito fu ricondotto nei limiti dei poteri che la Costituzione gli assegna.

A che serve il Parlamento? Nella sua genesi storica, troviamo l’antica regola secondo cui non ci può essere prelievo fiscale (tassazione) che non sia stato previamente approvato dalla Assemblea rappresentativa dell’intera Nazione. In altre parole, il Parlamento serve in primo luogo ad approvare il bilancio e le leggi finanziarie dello Stato. Tale prerogativa nasce dall’esigenza di tutelare i cittadini dalle pretese ingiustificate del re. Oggi che, per fortuna, i tempi dell’assolutismo monarchico sono alle nostre spalle, permane l’esigenza che l’opinione pubblica abbia esatta contezza dell’andamento dei conti pubblici. L’obiettivo è quello stabilito dall’articolo 81 della nostra Costituzione: tenere in equilibrio le entrate e le spese. Così come avviene per il bilancio dello Stato, tutte le decisioni più importanti che riguardano la comunità nazionale dovrebbero essere discusse e deliberate dal Parlamento.

Questa, purtroppo, resta soltanto una bella teoria. La Costituzione della Repubblica italiana è entrata in vigore il primo gennaio del 1948 e delinea una forma di governo parlamentare. Nella realtà, il potere legislativo è esercitato, non dai deputati e dai senatori, ma dal Governo, attraverso il ricorso continuo ai decreti-legge, i quali dovrebbero essere adottati esclusivamente nei casi di necessità e di urgenza. Nell’ordinamento italiano il Presidente della Repubblica dovrebbe essere al di sopra delle parti politiche e svolgere una funzione di garanzia dell’osservanza della Costituzione. Troviamo, effettivamente, numerosissimi esempi di lamentazioni presidenziali contro l’abuso dei decreti-legge, ma, di fatto, nella prassi nulla cambia. In ciascuna Legislatura, si avvicendano poi almeno tre governi di differente indirizzo politico. Posto che la durata di una Legislatura è stabilita in cinque anni, il continuo mutamento di governo significa che non possono essere realizzati obiettivi politici ambiziosi. L’azione di ogni Esecutivo è di corto respiro. Tutto viene sempre rimesso in discussione, come nella tela di Penelope.

Matteo Renzi ha una spiccata personalità, ha molti talenti e risulta umanamente simpatico a chi sappia perdonargli qualche eccesso di spregiudicatezza. Quando ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei ministri, Renzi si sentì all’altezza di un compito non banale: riformare la nostra Costituzione. Pensò di riuscire nell’impresa alleandosi con un ex Presidente del Consiglio, nonché leader di un partito di opposizione: Silvio Berlusconi.

Per Renzi e Berlusconi, entrambi uomini pratici, il diritto, anche costituzionale, sembra avere poca importanza. Ad esempio Renzi era contrario a tenere in vita il Senato, perché contrario al bicameralismo. Poiché l’abolizione tout court sembrava troppo radicale, ecco una furbizia indegna di un costituente: la proposta che il Senato diventasse un doppio lavoro, con alcuni consiglieri regionali chiamati, part time, ad esercitare il ruolo di senatori.

Per gli uomini pratici, l’approvazione di una nuova legge elettorale era ben più importante di una limitata riforma della Costituzione. Sono ormai note a tutti le convinzioni di Berlusconi in materia di legge elettorale: egli aborre i collegi elettorali uninominali, propri del sistema maggioritario, e, per quanto riguarda il sistema proporzionale basato su liste concorrenti, è contrario al fatto che gli elettori possano esprimere preferenze. Desidera, infatti, che i parlamentari siano scelti e graziosamente nominati dal leader di ogni partito, secondo una logica di fedeltà a lui. Parlamentari effettivamente selezionati dal Corpo elettorale sarebbero politicamente troppo indipendenti, quindi incontrollabili. Renzi si acconciò volentieri a tale impostazione. Fu così approvata la legge elettorale cosiddetta "Italicum" (legge 6 maggio 2015, n. 52).

L’intesa fra Renzi e Berlusconi fece naufragio. Motivo del contendere fu la scelta del candidato da proporre alla carica di Presidente della Repubblica. La Corte Costituzionale dichiarò illegittime alcune disposizioni dell’Italicum prima che quella legge elettorale venisse mai applicata. Le proposte di modifica della Costituzione, mediocri in modo desolante, furono nettamente respinte dal Corpo elettorale nel Referendum confermativo del 2016.

La denominazione di "Italicum" non è stata scelta a caso: essa è in linea, purtroppo, con tutto un costume nazionale. Tale costume consiste nello svilimento del Parlamento, ridotto ad una condizione di dipendenza strutturale dal Governo. Lo strumento tecnico per perseguire questo obiettivo è il premio di maggioranza: si prevede che la lista più votata tragga forza da un consistente premio in seggi, cosicché in Parlamento ci sia una maggioranza numerica adeguata e garantita. Il modello resta sempre quello della legge Acerbo, dal nome del politico Giacomo Acerbo, approvata nel 1923. Quella legge maggioritaria ebbe una importanza decisiva nel rafforzare il fascismo a livello istituzionale, premiandolo nelle elezioni del 1924 e aiutandolo così a trasformarsi in regime. Un parlamentare eletto grazie al premio di maggioranza ha, come suo primario dovere, quello di sostenere il Governo e di votare disciplinatamente per esso. Non è più libero di individuare il modo ,a suo avviso migliore, di servire la Nazione, come vorrebbe la Costituzione.

Renzi ancora non sa spiegarsi perché abbia perso il Referendum confermativo del 2016. Ciò che più importa, non ha mutato opinione circa la necessità che la legge elettorale contempli un premio di maggioranza. Così si è inserito nel dibattito promosso dal governo Meloni sull’esigenza di mutare la forma di governo. Propone che non si parli di semipresidenzialismo (sgradito a tutte le sinistre), suggerendo, in alternativa, il modello del "Sindaco d’Italia".

Come sempre, è abile tatticamente, perché dà all’attuale maggioranza la speranza di potersi allargare ad alcuni gruppi della attuale opposizione: Italia Viva e Azione. Il lettore rifletta su un dato: nell’ordinamento della Francia le elezioni dell’Assemblea Nazionale (ossia del Parlamento) si tengono in un momento diverso, successivo, rispetto a quello dell’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica. Non si tratta di un dettaglio: significa che anche il Parlamento dispone di una propria, autonoma, legittimazione popolare. Il Presidente deve fare i conti con l’organo rappresentativo; utilizzando, a questo scopo, l’abilità del Primo ministro, oltre che la forza parlamentare del partito (o della coalizione di partiti) che ha espresso il Presidente medesimo.

Un Presidente della Repubblica, sprovvisto di una maggioranza parlamentare certa, è una "anitra zoppa", come dicono negli Stati Uniti d’America? Forse sì, ma se la Costituzione prevede più organi costituzionali (Presidente e Parlamento) è perché in un ordinamento libero c’è bisogno di entrambi. Il Governo esercita un ruolo fondamentale, ma tutto non può risolversi nel suo circolo ristretto.

A me sembra, dunque, che Renzi stia predisponendo una trappola per la presidente Meloni. Trappola in cui non vorrei questa cadesse. Si può vincere, o perdere, con dignità; ma i pasticci, in materia costituzionale, li paghiamo tutti noi italiani. Di conseguenza, non si perdonano.

Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ed i suoi alleati di governo hanno l’opportunità storica di concepire una riforma della parte seconda della Costituzione, la quale serva davvero a migliorare l’efficienza del sistema istituzionale italiano. Non basta una riforma purchessia.

Il mutamento della forma di governo è diventato un passaggio necessario; ma da solo non basta. In Italia c’è un eccesso di normazione. Le procedure sono sempre complesse. Così le uniche opere che vengono realizzate in tempi accettabili sono quelle in cui sii deroga al regime ordinario e si procede con modalità straordinarie. Ciò comprova che le procedure ordinarie sono sbagliate.

Inutile prevedere conferenze di servizio sempre più allegate: il fatto che molti enti siano chiamati ad esprimere un parere non garantisce la bontà di un’opera; né serve ad allontanare i rischi di corruzione dei decisori politici e dei funzionari. Un parere resta sempre un fatto meramente cartaceo, un adempimento burocratico. L’interesse generale, invece, è che le opere si facciano, siano realizzate a regola d’arte, siano ultimate quando più servono, ossia in tempi accettabili.

Occorre intervenire radicalmente anche sull’attuale assetto delle regioni, correggendo i tanti errori contenuti nella riforma costituzionale del 2001, concepita da un governo di centrosinistra. In altro articolo di stampa, che ho diffuso il 22 maggio scorso, ho cercato di argomentare la mia contrarietà a riconoscere al Veneto e alla Lombardi8a una forma di autonomia differenziata, utilizzando la procedura contemplata dall’articolo 116 della Costituzione, come modificato nel 2001. Secondo la mia opinione, in questa fase nulla bisognerebbe variare delle regioni a statuto speciale. Le quali hanno una precisa ragion d’essere. Occorrerebbe, invece, sostituire le quindici regioni ordinarie esistenti con tre Macroregioni.

Allo scopo di ben amministrare, diventa decisiva la considerazione della dimensione, territoriale e demografica, dell’ente regionale chiamato a programmare e poi dell’ente di governo territoriale chiamato a realizzare le opere programmate. Quando ci si debba occupare della salute di grandi laghi (come il lago di Garda, o il lago Maggiore), quando si debba monitorare il corso di grandi fiumi, q1uali il Po, con tutto il suo sistema di affluenti, non è sufficiente che ogni regione si doti di un proprio, distinto, piano delle acque.

Il medesimo discorso vale per tutto il lavoro di prevenzione divenuto indispensabile rispetto ai fenomeni naturali. C’è da fronteggiare eventuali periodi di siccità ed allora bisogna aver costruito nuovi invasi e nuove dighe, nei quali immagazzinare acqua dolce. C’è da prevenire i danni provocati da piogge alluvionali ed allora bisogna aver costruito vasche di espansione e canali, per dirottare in essi l’acqua in eccesso.

È poi mera follia considerare che comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti possano svolgere i compiti di stazioni appaltanti.

Il sentimento di attaccamento nei confronti della propria comunità locale, con il suo paesaggio, la sua storia, le sue tradizioni, anche gastronomiche, il particolare dialetto, è un sentimento nobile, che merita apprezzamento. In ciò si rinviene l’esigenza migliore espressa da coloro i quali si professano assertori del valore dell’autonomia. Nel passaggio dal diciannovesimo secolo alla contemporaneità, la dimensione regionale non può, tuttavia, continuare ad essere vista come una imprescindibile funzione di governo ed amministrativa. Oggi servono più che mai capacità di fornire risposte ai problemi della comunità sociale. Servono efficienza ed efficacia nell’azione amministrativa; allocazione produttiva delle risorse finanziarie disponibili (sempre scarse rispetto alle esigenze), in modo da evitare sprechi e disservizi. Ho conosciuto molti sedicenti progressisti e molti sedicenti democratici schierati a difesa dell’attuale assetto regionale (diciannove regioni e due province autonome). Non lo facevano, però, per nobili motivi, ma per un preciso interesse. Quello di aumentare i posti in cui collocare i politici di professione, nonché i posti per moltiplicare le funzioni apicali dei dirigenti burocratici, amministrativi e tecnici.

Si comprende, pertanto, come la proposta dell’istituzione di tre (soltanto tre) Macroregioni sia stata male interpretata: non pochi, i quali considerano immodificabile l’attuale realtà istituzionale, a dispetto delle continue dimostrazioni della sua inefficienza, hanno pensato si trattasse di una ulteriore sovrastruttura.

Per questo ho ritenuto necessario precisare: «Le singole regioni che compongono le macroregioni non eleggono più i propri organi statutari perché la rappresentanza democratica dei cittadini in esse residenti si realizza attraverso l’elezione degli organi delle macroregioni».

Quando un modello organizzativo, quale quello da me proposto, si presenta come più semplice, più razionale, più efficiente, più economico, schierarsi a difesa dell’assetto esistente significherebbe tutelare il parassitismo di pochi. Quello della partecipazione democratica è un argomento di comodo. Per quanto mi riguarda, ho letto troppi saggi contro la partitocrazia, perché gli argomenti dei sedicenti democratici possano farmi impressione. I lettori immaginino quali risparmi economici potrebbero derivare dalla soppressione di 12 presidenti di regione, 12 Giunte regionali, 12 Consigli regionali, numerosissime funzioni apicali dei dirigenti burocratici. Risorse finanziarie così recuperate, da destinare a finalità di servizio del bene comune.

Sono convinto che un autentico, sincero, assertore del valore dell’autonomia dovrebbe preferire la razionalità alla conclamata inefficienza, la migliore allocazione delle risorse, rispetto agli sprechi. Domanda provocatoria: sarebbe preferibile istituire una macroregione del Nord Italia, con capoluogo Milano, oppure riconoscere forme di autonomia differenziata al Veneto e alla Lombardia?

Non temo che una eventuale macroregione del Nord possa diventare una minaccia per lo Stato italiano unitario. Il Corpo elettorale rappresentato sarebbe composto da emiliani-romagnoli, veneti, lombardi, liguri, piemontesi; senza dimenticare i numerosissimi meridionali che lavorano e risiedono al Nord, in particolare in Lombardia. Riuscire ad avere un consenso politico maggioritario nei confronti di un Corpo elettorale così composto, sarebbe impresa tutt’altro che facile.

Concludiamo con la legge elettorale. A Berlusconi non piacciono i collegi elettorali uninominali, tipici del Regno Unito (Inghilterra) e degli Stati Uniti d’America. Previsti anche da tanti altri Stati; ad esempio, la legge per l’elezione del Bundestag in Germania contiene la previsione che il 50 % dei seggi totali siano assegnati in collegi uninominali. Vantiamo pure una tradizione italiana al riguardo. La legge elettorale per l’elezione della Camera dei deputati del Regno di Sardegna (poi d’Italia) stabiliva che i deputati fossero eletti in collegi uninominali. In un primo turno di votazione, chiunque poteva proporsi come candidato. Nel secondo turno di votazione la competizione si restringeva ai due candidati risultati più votati e prevaleva chi avesse riportato anche solo un voto in più. Questa era la legge elettorale voluta da Camillo Benso di Cavour.

I collegi uninominali costituirono la grande novità della legge elettorale che porta il nome dell’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: legge 4 agosto 1993, n. 277 (per la Camera). Si passò da una legge proporzionale ad una prevalentemente maggioritaria, con il 75 % dei seggi attribuiti appunto nei collegi. Con quella normativa furono eletti i parlamentari di tre legislature repubblicane, dalla dodicesima alla quattordicesima, a partire dalle elezioni del 27 marzo 1994.

L’ultima legge elettorale con la quale si è votato, la legge 3 novembre 2017, n. 165, che porta il nome del deputato Ettore Rosato, prevede anch’essa l’elezione di una quota di deputati in collegi uninominali. Si tratta, tuttavia, di una quota troppo bassa, cosicché la dimensione territoriale dei collegi risulta eccessivamente vasta.

È possibile, anche se politicamente non facile, approvare una legge elettorale della quale non ci si debba vergognare (per carità di Patria, taccio a proposito del cosiddetto "porcellum").

In una Camera dei deputati composta da 400 membri, sarebbe possibile istituire 352 collegi, nell’intero territorio nazionale, corrispondenti ciascuno a circa 165.000 abitanti. Qualora una lista, o una coalizione di liste, prevalesse nettamente in termini di capacità di raccogliere consenso nel Paese, otterrebbe una cospicua maggioranza parlamentare. Risultato che sarebbe conseguenza della logica stessa del sistema maggioritario in collegi; senza che vi sia bisogno di prevedere alcun premio di maggioranza, predeterminato per legge.

L’articolo 56 della Costituzione, come riformulato dalla legge costituzionale 19 ottobre 2020, n. 1, prevede che 8 deputati siano eletti nella Circoscrizione Estero. Resterebbero da assegnare ulteriori 40 deputati, corrispondenti cioè al 10 per cento del totale dei seggi. Proporrei di attribuirli con metodo rigorosamente proporzionale (senza soglie di sbarramento), sulla base di liste concorrenti, nel Collegio unico nazionale. Tecnicamente, ciò richiederebbe una seconda scheda di votazione, per l’elettore. A differenza di quanto contemplato dalla legge Mattarella del 1993, non dovrebbe essere previsto alcuno scorporo del voto proporzionale rispetto al voro conseguito nei collegi uninominali.

La limitata quantità di seggi così attribuiti con metodo proporzionale garantirebbe una presenza in Parlamento anche alle forze politiche minori: un effettivo diritto di tribuna. Come ulteriore vantaggio, la candidatura in una lista presentata in sede di Collegio unico nazionale costituirebbe una sorta di vetrina: al cospetto dell’intera comunità nazionale, ciascuna forza politica potrebbe schierare le proprie personalità più prestigiose e rappresentative.

In conclusione, l’obiettivo che perseguo è quello che il Governo sia reso più stabile ed autorevole, ma senza, contestualmente, mortificare il Parlamento. Si vorrebbe che questo, finalmente, fosse eletto in virtù di una legge elettorale onesta.

Palermo, 7 giugno 2023                                                    Livio Ghersi

 

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Ecco nuove interessanti riflessioni di Livio Ghersi sulla forma di Governo e sulle Regioni. Mi permetto solo di introdurre i lettori all'analisi di Livio con l'avvertimento - che estendo anche all'Autore in attesa di leggere la seconda parte del Suo lavoro - con l'avvertimento, dicevo, che la maggior parte delle persone pensanti, sfiduciata da corruzione ed inadeguatezza dei candidati, ha deciso di non recarsi a votare. Non credo che l'entusiasmo giungerebbe di fronte a candidature "presidenziali" di alto profilo, basti ripensare al reincarico "subito" dal Presidente Mattarella in mancanza di valide alternative. In politica, personaggi di alto profilo non ne abbiamo più. Il salvatore della Patria verrebbe dunque eletto dagli stessi odierni frequentatori dei seggi elettorali, e non mi pare che i risultati siano incoraggianti. In conclusione, pur apprezzando lo scritto di Livio, penso che occorrerebbe, innanzi tutto, trovare il modo di riportare la partecipazione politica a livelli accettabili ed indi sperare nell'innalzamento della percentuale dei votanti. Missione impossibile......  La seconda parte è tanto interessante che sarebbe meraviglioso poterla ascoltare pronunciata da un parlamentare: ancora una volta, missione impossibile..... 

 

La riforma costituzionale della forma di governo deve includere la riorganizzazione delle regioni.

 

La presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, d’intesa con i suoi alleati di governo, ha riproposto la questione dell’esigenza di riformare alcune disposizioni costituzionali, per modificare la forma di governo, nel senso di un rafforzamento del potere esecutivo.

Al riguardo, il modello istituzionale preferibile è quello semipresidenziale proprio della Francia; a suo tempo affermatosi per volontà di Charles De Gaulle.

C’è una grande differenza fra il semipresidenzialismo e proposte strampalate come l’elezione del "Sindaco d’Italia", della quale si fa assertore Matteo Renzi. Nel semipresidenzialismo resta intatto il ruolo della Assemblea Nazionale, liberamente eletta dal Corpo elettorale in un momento diverso rispetto all’elezione del Capo dello Stato.

Dal mio punto di vista, un libero Parlamento, rappresentativo della Nazione, è un presidio di libertà, indispensabile come momento di riequilibrio rispetto al Potere esecutivo.

Qualora la maggioranza parlamentare non coincida con l’indirizzo politico del Presidente, servirebbe la capacità politica di quest’ultimo. Emmanuel Macron, invece, ha evidenti limiti, sia caratteriali, sia di cultura politica. Lo si descrive come liberale; invece è di formazione socialista e ritiene, a torto, che basti il decisionismo, senza preoccuparsi di mediare per allargare l’area del consenso.

Se cercate autentici liberali europei pensate alla FDP di Christian Lindner in Germania, o alla VVD di Mark Rutte nei Paesi Bassi. Macron non c’entra; infatti, piace a Carlo Calenda e a Matteo Renzi, i quali vorrebbero collocarsi al centro del sistema politico italiano, ma sono entrambi ex dirigenti del Partito democratico.

La Francia ha una tradizione rivoluzionaria e insurrezionale: 1789, 1830, 1848, 1870, fino al maggio 1968. Mette tristezza, tuttavia, che su un argomento quale la riforma del sistema pensionistico, possibile oggetto di mediazioni, si debba assistere ad una guerriglia urbana inutilmente distruttiva in tante città francesi, grandi e piccole. Un Capo dello Stato dovrebbe avvertire la responsabilità di garantire l’unità della società. Non esasperare le divisioni.

Per quanto direttamente mi riguarda, in passato ho difeso la forma di governo parlamentare. Ricordo il leader della destra missina, Giorgio Almirante, il quale chiedeva che in Italia si adottasse la stessa soluzione voluta da De Gaulle. Ricordo che, nel mio piccolo, criticai il leader del Partito socialista, Bettino Craxi, il quale, negli anni Ottanta del secolo scorso, lanciò la parola d’ordine della Grande Riforma istituzionale, sia pure espressa in termini ancora troppo generici.

Quanti oggi si schierano a difesa della forma di governo parlamentare, sostengono che non ci sia altro modo per garantire che la Presidenza della Repubblica resti una istituzione neutra, super partes. Ricordiamo gli ultimi sei presidenti, eletti in un momento successivo al maggio del 1978, data dell’uccisione del leader democristiano Aldo Moro, da parte dei terroristi delle Brigate Rosse: Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella.

In un sistema politico troppo frammentato, quale quello italiano, i presidenti della Repubblica hanno finito per svolgere sempre più incisivi compiti di supplenza politica. Sono venuti meno i grandi partiti del dopoguerra, come la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, ciascuno dotato di un proprio, effettivo, radicamento nella società italiana.

Presidenti quali Napolitano e Mattarella sono stati determinanti nello stabilire i rapporti fra l’Italia e le istituzioni della Unitone Europea, le quali, come è noto, si reggono su un accordo politico fra il Partito popolare europeo e quello dei Socialisti e dei democratici. I medesimi presidenti hanno avuto un ruolo pregnante nella politica estera; ad esempio, nel ribadire la fedeltà dell’Italia alla Alleanza Atlantica (Nato). Scusate se vi pare poco.

Le vicende del Partito Democratico dimostrano ampiamente che la neutralità del Presidente della Repubblica è soltanto un mito. Il PD, indipendentemente dal buono o cattivo esito delle elezioni, tende a far parte di quasi tutti i governi. Reale partito di potere, deve le sue fortune al fatto di essere interprete fedele della volontà politica del Capo dello Stato.

La finta neutralità dei Presidenti della Repubblica ci induce a chiederci fino a che punto un governo dichiaratamente di destra possa coesistere con un Capo dello Stato che non fa mistero di avere un indirizzo politico di centrosinistra Ciò che è più grave, il pensiero del Capo dello Stato penetra nell’opinione pubblica attraverso gli organi di informazione di massa; diventa senso comune, fondamento della ideologia del politicamente corretto.

Così può capitare che un intellettuale noto, quale Gad Lerner, definisca la politica sull’immigrazione che il Governo Meloni sta cercando di definire "ingiusta, disumana, inefficiente". Giudizi riportato in prima pagina da un importante quotidiano e poi accettato come senso comune. Peccato che tale giudizio concordasse con quanto dichiarato da un dirigente politico francese (del partito di Macron).

I progressisti leggono la nostra Costituzione e ne traggono la conseguenza che debbano trovare realizzazione tutti i diritti fondamentali di ogni persona umana, a prescindere da ogni logica di copertura finanziaria, ossia a prescindere dalle risorse finanziarie di cui lo Stato effettivamente disponga.

Per fare meglio comprendere la posta in gioco, ricordo l’intervento che Claudio Martelli, al tempo dirigente politico emergente, svolse nel 1982 a Rimini, in una Conferenza programmatica del PSI. Martelli parlò di meriti e di bisogni come di un binomio indissolubile.

Pure l’idea dei meriti è affermata nella Costituzione: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34, terzo comma, Cost.). La logica egualitaria, tuttavia, tende a contrapporsi a quella meritocratica. Il recente movimento degli studenti universitari ha ragione di chiedere che si rendano disponibili nuovi alloggi per i fuori sede nelle residenze universitarie e nelle case dello studente; così come ha ragione di protestare contro il caro affitti. Temo però che a nessuno verrebbe in mente che la possibilità di entrare, o di permanere, nelle residenze universitarie debba essere sottoposta alla condizione di ottenere un certo rendimento negli esami universitari. L’idea dei meriti va oltre la considerazione delle condizioni materiali delle persone e fa appello ad esigenze spirituali: la forza di volontà, la tenacia, la capacità di sacrificio, l’autodisciplina. Ad esempio, nei Paesi nordici e in quelli anglosassoni c’è l’istituto del prestito d’onore, concesso a condizioni di favore agli studenti per consentire loro di frequentare e di concludere il corso di studi che hanno scelto, ma prestiti che loro stessi si impegnano a restituire a distanza di un certo numero di anni dalla conclusione degli studi.

Tra i princìpi fondamentali della Costituzione c’è l’articolo 5, secondo cui: «la Repubblica, una e indivisibile, attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo, adegua i princìpi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e de decentramento».

Nel diciannovesimo secolo si riteneva, giustamente, che fosse sbagliato presumere che un unico centro decisionale, portatore di identiche procedure amministrative, potesse amministrare territori geograficamente lontani ed aventi caratteristiche sociali, economiche, culturali, molto differenti fra loro. Veniva criticato e respinto il modello amministrativo napoleonico.

Il mondo umano del ventunesimo secolo è del tutto diverso: oggi tutte le attività economiche e finanziarie hanno rilevanza e si influenzano reciprocamente nella dimensione globale, così come le distanze geografiche hanno sempre minore importanza perché le comunicazioni sono veloci e le informazioni sono disponibili quasi immediatamente. Ne consegue che il concetto di autonomia regionale non possa più essere concepito come lo intendeva Carlo Cattaneo nel 1848, ma richieda un radicale ripensamento.

È errato ritenere che tutte le regioni elencate nell’articolo 121 della Costituzione costituiscano realtà istituzionali consolidate, con una propria tradizione storica. Si può fare l’esempio della Emilia – Romagna, i cui centri abitati erano riconducibili a tre diverse entità statuali: 1) i territori dello Stato Pontificio (con l’importante città di Bologna 2) )il Ducato di Modena e Reggio -Emilia; 3) il Ducato di Parma e Piacenza.

L’istituto regionale fu molto valorizzato nella cultura politica del Partito Popolare di don Luigi Sturzo. Pure questo è un retaggio della diffidenza che i cattolici nutrivano nei confronti dello Stato italiano unitario. La concezione della autonomia territoriale ebbe un valore fondamentale anche in quella parte del Partito repubblicano che si richiamava al pensiero di Carlo Cattaneo. Tra i deputati repubblicani membri della Assemblea Costituente va ricordato Oliviero Zuccarini, significativo esponente di tale tendenza.

I repubblicani seguaci di Giuseppe Mazzini, invece, erano fortemente unitari. Temevano che la rivendicazione delle autonomie fosse un espediente per mantenere in vita, in forme diverse, i vecchi Stati preunitari.

Benedetto Croce, nella qualità di membro dell’Assemblea Costituente e di presidente del Partito liberale (PLI), l’11 marzo del 1947 intervenne per valutare complessivamente il progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione dei 75. Nell’occasione criticò «la tendenza a costituire le regioni, a moltiplicarne il numero, ad armarle di poteri legislativi e di altri di varia sorta». Il discorso al quale faccio riferimento è titolato "Il disegno della nuova Costituzione dello Stato italiano". Croce sapeva di interpretare un punto di vista minoritario: sia i socialisti di Pietro Nenni, sia i comunisti di Palmiro Togliatti, ed anche alcuni liberal-radicali come Francesco Saverio Nitti, erano a favore dell’istituto regionale. Secondo Croce, dopo il fascismo e la guerra sciagurata, l’Italia si trovava nelle condizioni di «un organismo che ha sofferto una grave malattia». Si era smarrito così il senso che il massimo bene ereditato dal Risorgimento fosse l’unità dello Stato italiano. Il regionalismo era paragonabile ad un male morale: alimentava le divisioni, i contrasti, le gelosie. Si risvegliavano malanni antichi, quali i contrasti di Nord e di Sud, di Italia insulare e di Italia continentale.

Ben venti articoli della Costituzione entrata in vigore l’1 gennaio 1948, dal 114 al 133, si occupavano delle autonomie regionali e locali. Questa (Titolo quinto della parte seconda) è la parte della Costituzione che ha subìto le più rilevanti modifiche. Ciò è avvenuto con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, approvata quando era in carica un governo con indirizzo di centrosinistra. Quella riforma non fu felice; anche se fu confermata dal Corpo elettorale, in un Referendum troppo poco partecipato.

Non contribuisce certamente all’efficienza del sistema amministrativo italiano il fatto che ci siano ventuno differenti ordinamenti giuridici (19 regioni più due province autonome). Per chi, come me, prende molto sul serio la problematica della partitocrazia, nel senso definito da Giuseppe Maranini (1902-1969), è evidente che 19 regioni e due province autonome costituiscano lo scenario ottimale per classi politiche irresponsabili. Altro che bene comune! Altro che amor di Patria! Soltanto ruoli istituzionali, cariche ben remunerate, tanta visibilità pubblica, gestione del potere, per un alto numero di professionisti della politica.

Se poi si entra nel merito della riforma del Titolo quinto attuata nel 2001, si nota come quattro livelli di governo territoriale (comuni, città metropolitane, province, regioni) siano davvero troppi. Per questa via si crea il massimo di confusione istituzionale, nel senso che agli occhi dei cittadini non è più chiaro quale istituzione sia competente. Si assiste ad un continuo rimpallo di responsabilità fra le istituzioni, perché ciascuna sostiene che un determinato intervento avrebbe dovuto essere posto in essere da altra istituzione. Così tutti diventano irresponsabili.

Per non parlare della problematica del federalismo. Questo, in linea teorica, dovrebbe servire a federare, ossia a mettere insieme, ad unire, realtà statuali, o comunità sociali, che siano fra loro separate; cosicché, dopo la federazione, abbiano un governo unitario.

Negli anni Novanta del secolo scorso si affermò, invece, un curioso federalismo italiano. Doppiamente curioso perché l’Italia era Stato unitario dal 1861 e perché la nostra Costituzione dava già fin troppo spazio al sistema delle autonomie, regionali e locali. Il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, e raffinati giuristi come Gianfranco Miglio, intesero il federalismo in senso opposto: per loro si trattava di allentare i vincoli che legavano la Lombardia e il Veneto al resto del Paese. Chiedevano che la maggior parte delle entrate finanziarie derivanti dal gettito fiscale e dalla riscossione dei tributi in genere, restasse nei territori del Nord, là dove era avvenuta la riscossione. Avevano fondamentalmente due obiettivi polemici. Il primo era «Roma ladrona», ossia la burocrazia ministeriale, la quale, per definizione, era presentata come inefficiente e corrotta.

La polemica si sviluppava poi contro i Meridionali, i terroni, descritti come gente con poca voglia di lavorare, di null’altro desiderosi che di essere assistiti con la spesa pubblica. La Lega Nord dichiarava di ribellarsi a questo supposto parassitismo dei meridionali.

L’attuale Segretario della Lega, Matteo Salvini, ha una linea politica ben differente rispetto a quella prima espressa da Bossi ed ha puntato a costruire un partito nazionale, presente anche al Sud.

Il Governo in carica, tuttavia, vuole utilizzare l’articolo 116 della Costituzione (come modificato dalla riforma costituzionale del 2001) per attivare forme e condizioni particolari di autonomia a vantaggio della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia-Romagna.

Anche in questo caso, tutto si riduce ad una questione di soldi: il Veneto, ad esempio, non può sopportare di trattenere una quota di risorse inferiore a quella spettante alla confinante regione del Trentino – Alto Adige, la quale gode di autonomia differenziata. Non aveva torto, dunque, Benedetto Croce quando parlava di malattia morale!

Cercherò di meglio precisare il mio punto di vista in un successivo articolo. Ora è sufficiente affermare che mi sono convinto di due cose; 1) in un sistema così istituzionalmente frammentato e così partitocratico quale è l’Italia, una riforma della forma di governo in senso semipresidenziale, potrebbe servire a rendere più forte, stabile ed autorevole, il governo del Paese; 2) la eventuale riforma costituzionale non può limitarsi al predetto aspetto, sempre che si segua veramente l’esigenza di perseguire il bene comune, l’interesse a rafforzare la Nazione. C’è la stringente necessità di riformare radicalmente il sistema delle autonomie regionali e locali. I finti democratici ed i finti autonomisti si opporranno con tutte le loro forze, perché hanno troppo da perdere. Mi sia consentito, da modesto intellettuale, di indicare quelle che, in coscienza, sono mie convinzioni profonde e che, nel contempo, mi sembra non manchino di un fondamento razionale. (Prima parte di due).

Palermo, 17 maggio 2023                                                              Livio Ghersi

 

 Seconda parte

Proposta di sostituire le Regioni ordinarie con tre Macroregioni.

 

L’autonomia differenziata entrò a far parte della Costituzione in vigore dall’1 gennaio 1948. Ciò avvenne per validissimi motivi, non per capriccio. Si trattava di tutelare minoranze linguistiche, come i francesi della Val d’Aosta, o i tedeschi dell’Alto Adige. Nel caso del Friuli-Venezia Giulia, ultima regione a statuto speciale istituita in ordine di tempo, si trattava di meglio garantire pacifici rapporti con gli sloveni (a Gorizia), con i croati (a Trieste), e gli Slavi in genere. Il tutto in conformità a trattati internazionali.

Le altre due regioni ad autonomia differenziata previste dai Padri costituenti sono le nostri grandi isole: Sicilia e Sardegna. L’insularità costituisce già una condizione particolare; non soltanto per le distanze geografiche. Nel caso della Sicilia, la specialità discende da una storia ricchissima, che vide una parte dell’isola dominata dai Punici (Cartaginesi), mentre nella parte orientale dominavano gli antichi Greci (in particolare, a Siracusa). Nel 1130 fu riconosciuta alla Sicilia la dignità di Regno. Primo re fu il nobile normanno Ruggero II. Tutti i possedimenti normanni nell’Italia Meridionale, in Calabria, in Puglia, in Campania (inclusa Napoli), allora erano compresi nel Regno di Sicilia.

Dopo il Congresso di Vienna del 1815, Ferdinando I di Borbone, riportato sul trono, pensò di semplificare la realtà istituzionale: non più due autonomi regni di Napoli e Sicilia, retti da un unico sovrano in virtù di una unione personale, ma un unico Stato delle Due Sicilie. Una parte rilevante dell’aristocrazia e della classe dirigente isolane non perdonarono mai ai Borbone di Napoli quel declassamento. Non si spiegano altrimenti gli eventi del 1848-1849 e, soprattutto, l’esito della spedizione dei mille, guidati da Giuseppe Garibaldi, nel 1860. Dopo lo sbarco nell’isola degli anglo-americani, nel 1943, il mito della specialità della Sicilia alimentò il fenomeno del Separatismo.I nostri Padri costituenti valutarono tutti quei precedenti storici e si convinsero che, per convivere in pace, servisse il riconoscimento di un regime di speciale autonomia. Fu così che la Sicilia poté eleggere la propria Assemblea regionale già nel 1947, ossia prima che si tenessero le prime elezioni del Parlamento repubblicano.

Dopo aver concluso il proprio settennato di Presidente della Repubblica (1948-1955), Luigi Einaudi, economista ed intellettuale liberale, pubblicò il libro "Prediche inutili". Comprendeva il saggio titolato "Che cosa resterebbe allo Stato?" Einaudi dimostrava che ciò che era stato concesso alle regioni ad autonomia differenziata non era estensibile alla totalità delle regioni.

Altrimenti, sarebbero venute meno le risorse finanziarie necessarie per fare funzionare lo Stato italiano.

Il principio costituzionale dell’equilibrio fra entrate e spese nel bilancio dello Stato, affermato dall’articolo 81 della Costituzione, come riformulato dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, non viene tenuto nella dovuta considerazione dagli odierni autonomisti. Non si dovrebbe dimenticare che ci sono rilevanti spese il cui onore ricade comunque sul bilancio dello Stato italiano unitario, indipendentemente dalla quantità delle entrate riscosse anno per anno. Di conseguenza, è sbagliato determinare le risorse di ogni regione con il criterio della compartecipazione al gettito fiscale, come se si trattasse di una cifra che resta costante.

Faccio alcuni esempi. Lo Stato unitario deve farsi carico, tra l’altro, di dare copertura finanziaria alla spesa pubblica per i seguenti interventi, A) Spese per il funzionamento dello Stato-apparato (Magistratura, ordinaria, amministrativa e contabile, Arma dei Carabinieri e altre Forze armate, Forze dell’ordine, strutture logistiche quali le caserme, armamenti, Istituti di detenzione, Capitanerie di porto, rappresentanze diplomatiche e consolari dell’Italia all’estero, interventi di cooperazione internazionale con Paesi terzi, in particolare quelli in via di sviluppo. B) Servizio del debito pubblico. Uno Stato molto indebitato, quale l’Italia, ha necessità di emettere periodicamente titoli del debito pubblico (BOT, eccetera), affinché siano acquistati sia nei mercati finanziari internazionali, sia da risparmiatori italiani. In ciascun esercizio finanziario, lo Stato deve stanziare somme per restituire ai creditori, internazionali ed interni, quanto ha ottenuto in prestito, con la maggiorazione degli interessi, a suo tempo concordati. Qualora lo Stato trascurasse tale adempimento, nessuno sarebbe più disposto a concedergli denaro a credito. C) Spese per il sistema previdenziale, cioè per il pagamento delle pensioni maturate dai lavoratori, al termine del loro ciclo lavorativo. D) Spese per interventi cosiddetti assistenziali, ossia finalizzati a rinsaldare la coesione sociale; nei Paesi anglosassoni si parla di welfare State. Si potrebbe continuare, con un lunghissimo elenco.

L’articolo 116 della Costituzione è stato purtroppo modificato dalla riforma costituzionale del Titolo quinto, nel 2001. Quanti erano gelosi delle poche regioni a statuto speciale, hanno previsto un meccanismo che consente anche a regioni ordinarie di avere forme e condizioni particolari di autonomia. La logica è semplice: si concede alle regioni ordinarie interessate di attivare ulteriori materie in cui avrebbero competenza. Alle accresciute competenze corrisponderebbero ulteriori risorse finanziarie, tra quelle riscosse nel territorio regionale, sottraendole contestualmente allo Stato. La procedura di cui all’articolo 116, terzo comma, Cost., per fortuna finora non si è mai completata con successo. Richiede l’iniziativa di ogni regione ordinaria interessata, sentiti i propri enti locali. Nel caso del Veneto e della Lombardia, le rispettive popolazioni si sono dichiarate d’accordo in appositi Referendum consultivi. Il che non significa molto: alla domanda se si vuole che le tasse pagate dai contribuenti restino, quanto più possibile, nel loro territorio regionale, tutti risponderebbero affermativamente. La procedura prevede poi una apposita intesa fra lo Stato e la regione interessata. Di questo si è occupato il ministro Roberto Calderoli, parlamentare di antica esperienza. Il ministro ha pensato di tranquillizzare l’opinione pubblica nazionale, assicurando che si garantirà che, su tutto il territorio nazionale, siano rispettati i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali». Come dire che il Meridione, in ritardo di sviluppo, non sarà ulteriormente penalizzato da un favore fatto alle più ricche regioni del Nord. Sarò malpensante, ma la rassicurazione non mi rassicura. Il ministro non ha inventato alcunché: la formula dei livelli essenziali delle prestazioni è affermata nella Costituzione dal 2001. Si veda l’articolo 117, secondo comma, lettera m), Cost., laddove si elencano le materie in cui lo Stato ha potestà legislativa. Facciamo l’esempio della tutela della salute, materia di legislazione concorrente, che finora ha assorbito la stragrande maggioranza delle risorse finanziarie delle quali le singole regioni ordinarie dispongono. La disposizione costituzionale, vigente al 2001, ha forse impedito che la qualità e l’efficacia delle prestazioni nella sanità, variasse notevolmente da regione a regione?

Per completare la procedura di cui all’articolo 116 Cost, serve una legge approvata da entrambe le Camere, a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna. Si sentono dichiarazioni minacciose, in particolare dal Presidente della Regione Veneto: si minaccia la crisi del governo Meloni qualora la legge sull’autonomia differenziata non venisse approvata. Qualche voto, però, quel governo lo perderebbe anche se la medesima legge venisse approvata. Il governo in carica è impegnato su molteplici fronti e, secondo me, sarebbe un atto di irresponsabilità farlo cadere.

Questo mese di maggio 2023 è stato funestato dagli eventi calamitosi che hanno riguardato l’Emilia - Romagna: le province di Forlì-Cesena (con Faenza), Rimini, Ravenna (con Lugo di Romagna), la stessa Bologna. Piogge di intensità eccezionale fanno esondare fiumi e corsi d’acqua; ma di questo non ci si può meravigliare più di tanto. Ci si meraviglia piuttosto della palese inadeguatezza delle istituzioni pubbliche (regioni, comuni, eccetera). Nella pratica amministrativa, la teoria conta meno di zero. Si deve guardare esclusivamente ai risultati. Da noi si considera virtuosa una regione se si è dotata di un proprio piano regionale delle acque, oppure se ha approvato una legge regionale per limitare il consumo di suolo (la cementificazione). Le alluvioni si fanno un baffo di questi piani e di queste leggi. Prima di cambiare argomento, tengo ad esprimere il mio totale apprezzamento nei confronti di quei tanti giovani che, come volontari, sono accorsi in Romagna per dare un aiuto materiale, per rimuovere l’acqua e il fango dai luoghi alluvionati. Rappresentano il meglio della Nazione italiana.

Ho ascoltato l’interessante punto di vista di un docente di ingegneria idraulica: come azione preventiva, bisognerebbe costruire, accanto ai fiumi e torrenti, vasche di espansione, invasi, nuovi canali, in modo da indirizzarvi l’acqua piovana in eccesso. Si deve passare dalla logica attuale, in cui eccezionalmente la regione bandisce appalti di opere o di servizi, ad un diverso ordinamento, in cui la regione operi davvero come un ente di programmazione. Strutture tecniche permanenti, dotate delle migliori professionalità, dovrebbero individuare tutte le opere di ingegneria idraulica necessarie, incluse la manutenzione delle dighe esistenti e la costruzione di nuove dighe. Dovrebbero essere elaborati piani di attuazione; cosicché mese per mese sia chiaro quali progressi si fanno; oppure, per responsabilità di chi, non si fanno. Tutto questo non è alla portata di piccole regioni, come il Molise (con tutto il rispetto). Non è neanche alla portata di una regione di medie dimensioni, quale appunto l’Emilia - Romagna. Un’esperienza ormai più che cinquantennale attesta il fallimento delle regioni ordinarie, istituite nel 1970. Sono enti buoni soltanto a produrre spesa pubblica; infatti, proprio a partire dal 1970, il rapporto fra debito pubblico dello Stato e Prodotto interno lordo (PIL) è nettamente peggiorato. Ricordiamoci di Giovanni Malagodi, segretario del Partito liberale, e della sua lunga azione contro le regioni ordinarie. Ciò non significa teorizzare che si debba accentrare ogni compito nello Stato: anche le burocrazie ministeriali danno spesso prove di inefficienza. Il problema è quello di far corrispondere la competenza territoriale regionale con aree vaste, il più possibile omogenee dal punto di vista dei precedenti storici e della fisionomia culturale-

Una riforma costituzionale è una cosa estremamente seria: richiederebbe una parziale riscrittura di quasi tutti gli articoli del Titolo quinto. Cosa che non si può fare in un articolo di giornale. Il Titolo quinto, riformato nel 2001, è u