Il sen.avv. Enzo Palumbo, che non si arrende facilmente, dopo una lunga battaglia per la modifica della attuale legge elettorale (Rosatellum) condotta insieme al compianto sen.avv. Besostri con censure purtroppo non accolte dalla Corte Costituzionale, è adesso fra i promotori di un Referendum abrogativo della stessa legge con l'intento di riportare in Parlamento non più nominati ma eletti. Visto che ormai le poltrone parlamentari sono riservate ad amici, parenti e portatori insani di popolarità ( e voti ) a buon mercato, impossibile non essere d'accordo. Ecco una sintesi dello stato dell'arte ad opera di Giuseppe Gullo
QUATTRO REFERENDUM PER UNA LEGGE ELETTORALE COSTITUZIONALE
25/04/2024
di Giuseppe Gullo
La quasi totalità dei costituzionalisti, politologi, commentatori di vicende istituzionali e del ceto politico, che non fa parte dei “cerchi magici”, è convinto che l’attuale legge elettorale italiana, il c. d. rosatellum, sia incostituzionale e sia anche causa non secondaria della crescente disaffezione degli elettori nei confronti della politica. L’astensione aumenta ed è ormai vicina al 50%, per cui il governo che viene fuori dalle urne non è espressione della volontà della maggioranza degli elettori ma della minoranza più consistente. In tal modo, i principi fondamentali della Democrazia liberale, che si basa sulla rappresentanza, vengono minati dalle fondamenta. La scelta dei parlamentari non viene fatta dagli elettori come sarebbe naturale che avvenisse, bensì dai capi dei partiti che, inserendo persone di loro fiducia nelle liste bloccate e candidando fedelissimi in collegi uninominali sicuri, determinano la quasi totale composizione dei gruppi parlamentari. Corollario di questo meccanismo è la dequalificazione della rappresentanza, in quanto il criterio di selezione non è il merito e la qualità dell’eletto, quanto piuttosto il suo legame col leader che ha il potere di nominarlo.
La stessa legge prevede inoltre un meccanismo per cui la scelta del candidato nel collegio uninominale si estende obbligatoriamente alla lista bloccata del collegio plurinominale, così costringendo l’elettore a votare candidati che altrimenti potrebbe non volere votar. La previsione della soglia di sbarramento del 3% nazionale, e cioè quasi un milione di voti nell’ipotesi del 60% dei votanti, non consente di dare rappresentanza a opinioni significative, anche modeste, ma portatrici di istanze di grande tradizione e di alto valore culturale e sociale. Tutto questo ha causato gli effetti negativi che conosciamo e che nessuno partito ha voluto seriamente affrontare. Il Rosatellum è in vigore da 7 anni e ha “regolato” le politiche del 2018 e del 2022 creando la situazione attuale senza che nessuno dei partiti che si sono succeduti al governo abbia fatto nulla per cambiarla.
Sin dal 2017, un gruppo di avvocati con vasta esperienza politica anche a livello parlamentare, come gli ex senatori Felice Besostri ed Enzo Palumbo, hanno promosso appositi ricorsi dinanzi a numerosi uffici giudiziari d’Italia evidenziando dubbi di costituzionalità che avrebbero potuto consentire alla Corte di esprimersi sulla legittimità del Rosatellum rispetto alle prescrizioni della Costituzione. A distanza di sette anni, c’è stata nei giorni scorsi un’ordinanza del tribunale di Torino che ha rigettato i dubbi di costituzionalità con motivazioni alquanto surreali, come quando ha ritenuto di potere salvare il voto congiunto obbligatorio inventandosi un dovere di coerenza a carico dell’elettore, costretto a votare anche chi non vorrebbe.
Da qui la necessità di utilizzare lo strumento del Referendum abrogativo per eliminare alcune delle storture presenti nel Rosatellum. I quesiti referendari, depositati in Cassazione il 23 aprile dal Comitato del Referendum per la Rappresentanza (Co. Re. Ra.), si propongono i seguenti obiettivi:
quesito 1: Abolizione del voto congiunto tra candidati uninominali e liste plurinominali, per cui l’elettore potrebbe esercitare effettivamente il suo diritto a un voto personale e libero;
quesito 2: eliminazione delle soglie di accesso per le liste autonome (3%) e per le coalizioni (10%), e tutte parteciperebbero alla distribuzione dei seggi ottenendo una rappresentanza esattamente corrispondente al rispettivo risultato elettorale; resterebbe solo la più modesta soglia dell’1% per le liste coalizzate;
quesito 3: abolizione del privilegio concesso ad alcuni partiti di essere esenti dalla raccolta delle firme per presentare candidature, per cui tutte le liste dovrebbero essere corredate dalle firme di presentazione degli elettori che, essendo in numero eccessivo, verrebbero dimezzate almeno in tutti i casi di anticipazione delle elezioni rispetto alla naturale scadenza;
quesito 4: divieto di pluricandidature, per cui residuerebbe la possibilità di candidarsi in un solo collegio uninominale e in un solo collegio plurinominale, le cui liste dovrebbero comunque avere un numero di candidati pari a quello degli eligendi, così da eliminare alla radice il fenomeno dei seggi eccedentari e il c. d. effetto flipper tra una circoscrizione e l’altra.
A questa iniziativa, che sconta inevitabilmente le strettoie costituzionali che ne condizionano l’ammissibilità, si accompagnerà una legge d’iniziativa popolare per introdurre la possibilità per l’elettore di esprimere anche qualche preferenza, come accade nelle elezioni europee, regionali e comunali, cosa questa che si è rivelata impossibile per via referendaria; in tal modo, sostiene Palumbo, il Parlamento cesserà di essere il luogo dei nominati e diventerà il luogo degli eletti.
ENZO PALUMBO RICORDA ANTONIO MARTINO
La morte improvvisa di Antonio Martino é una bruttissima notizia. Gli ero molto affezionato, e lo ricordo sin da giovane impegnato nella parte finale della rappresentanza universitaria, e poi prestigioso professore e preside alla Luiss, infine parlamentare e ministro ben più a lungo di Suo Padre Gaetano, icona del liberalismo italiano. Non ho sempre condiviso alcune sue posizioni, ispirate dalla Scuola Monetarista di Chicago di Milton Friedman, e anche il suo euroscetticismo, ma rendo omaggio alla sua statura di scienzato dell’economia, coltivata con lucida passione e divulgata con grande capacità dialettica”. Lo sottolinea ENZO PALUMBO, presidente di Democrazia Liberale. “Se ne va un grande protagonista della politica e dell’economia degli ultimi decenni e lo accompagna il rimpianto dei suoi vecchi amici messinesi e dei liberali italiani, e in particolare di Democrazia Liberale, che esprime alla famiglia le più affettuose e sentite condoglianze unitamente a quelle mie e di mia moglie Ketty, in memoria di un’antica amicizia con tutta la sua famiglia di origine, nel ricordo del fratello Piero e della sorella Carla, che ci hanno lasciato prima di lui.
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Riguardo il referendum, difficile conciliare le tesi di Ghersi ( SI ) riportate nello spazio a Lui dedicato, e e quelle di Palumbo ( NO ) che seguono.... fate Voi...
Quel che capita quando i 5 stelle ricorrono a Einaudi
di Enzo Palumbo
Quando qualcuno ricorre a citazioni antiche per adattarle alla situazione del momento, provando a utilizzarle a sostegno delle proprie convinzioni, corre di solito due rischi: il primo, generico, perché prescinde dal contesto politico in cui quelle parole furono pronunziate, mentre il secondo, più specifico, perché di solito si ferma alla citazione senza andare a leggere fino in fondo ciò che in quell’antica occasione fu effettivamente detto e fatto.
Penso che il ministro on. Federico D’Incà, li abbia corsi entrambi allorché, su Repubblica del 22 agosto, si è limitato a ricordare che il resoconto sommario della IIa Sottocommissione della Costituente del 18 settembre 1946 attribuisce a Luigi Einaudi, che aveva osservato che “quanto più è grande il numero dei componenti un’Assemblea, tanto più essa diventa incapace di attendere all’opera legislativa che le è demandata”; che, ovviamente, è principio assolutamente condivisibile in via di principio.
Parto da qui per evidenziare che se il ministro avesse letto quel resoconto sino alla fine, avrebbe potuto constatare che al termine della discussione, col voto favorevole proprio di Luigi Einaudi (ma anche di altri eminenti costituenti come Calamandrei, Codacci Pisanelli, Leone, Lussu, Mortati, Perassi, Vanoni, solo per citarne alcuni), venne approvata la proposta di eleggere un deputato ogni 100.000 abitanti, che è poi il rapporto sostanzialmente corrispondente a quello ancora vigente, visto che l’attuale numero di 630 deputati, rapportato a circa 60.483.973 abitanti odierni, comporta l’elezione di un deputato per ogni 96.006 abitanti.
Com’è noto, quel rapporto fu poi modificato dalla stessa Commissione e infine approvato dall’Aula, col consenso di Einaudi, in ragione di un deputato ogni 80.000 abitanti e di un senatore ogni 200.000, e ciò sino alla legge costituzionale n. 2-1963 che avrebbe infine introdotto il rispettivo numero fisso di 630 e 315, senza di che, stando ai costituenti (e quindi anche a Einaudi) i deputati di oggi sarebbero stati 756 e i senatori 302,
C’è poi il rischio generico, quello di prescindere dal contesto del tempo, che vedeva un’Assemblea eletta con un sistema proporzionale più che puro, in cui anche partiti che avevano raggiunto un risultato, che oggi si direbbe di prefisso telefonico (0,09, 0,22, 0,31,0,44, solo per dirne alcuni), erano riusciti a portare in Aula la giusta rappresentanza di esigue minoranze del Paese, e in cui il plenum della stessa Costituente, nella seduta del 23 settembre 1947, avrebbe coerentemente approvato uno specifico ordine del giorno, presentato dall’on. Giolitti, che testualmente recitava “L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei Deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale”.
Un ordine del giorno puntualmente rispettato dalla stessa Assemblea – in sede, ahinoi, solo legislativa e non costituente – con l’approvazione delle leggi 6-1948 per la Camera e 29-1948 per il Senato, che più proporzionali di com’erano non potevano essere, e che, in versioni appena modificate, hanno consentito al Paese, proporzionalmente rappresentato anche da minoranze piccole ma politicamente rilevanti, di crescere civilmente ed economicamente nella c. d. prima Repubblica, sino ai suoi, purtroppo infausti, esiti finali e all’introduzione di diverse specie di normative più o meno maggioritarie.
Sta di fatto che la riduzione dei parlamentari che sarà oggetto del prossimo referendum costituzionale “oppositivo” (e non “confermativo”, come impropriamente si usa dire) s’inserisce per l’appunto in un contesto elettorale sostanzialmente maggioritario, per via dell’attuale meccanismo di voto obbligatoriamente congiunto tra collegi uninominali e circoscrizioni, che finirà inevitabilmente per offrire alla più forte delle minoranze elettorali l’assoluto predominio del prossimo Parlamento in termini addirittura amplificati per via del minor numero di seggi disponibili, consentendo a chi avrà la ventura di prendere un voto in più di ottenere una maggioranza qualificata in entrambe le Camere (267 deputati sul plenum di 400, 137 senatori sul plenum di 205-206), potendo così modificare anche l’assetto ordinamentale del Paese e i suoi equilibri costituzionali senza neppure il fastidio di sottoporre le modifiche al responso popolare.
Per sostenere il SI, il ministro D’Incà ha poi finito per dare anche i numeri, provando a confermare l’equivoco che sta avvelenando tutta questa discussione, e così sommando gli attuali componenti delle nostre due Camere e raffrontandoli con quelli delle sole prime Camere degli altri paesi europei; un metodo “grossolano”, il cui utilizzo è comprensibile nella polemica politica, ma è assolutamente ingiustificabile quando viene sostenuto in sede scientifica da qualche isolato docente universitario.
Quando invece, dovrebbe essere evidente che, vista l’assoluta diversità di funzione e di formazione delle seconde Camere degli altri paesi, il rapporto va fatto solo tra le rispettive Camere basse, con la nostra Camera che, quanto a rappresentatività (deputati/popolazione) si colloca già oggi al 24° posto tra quelle dell’UE, e domani sarà ultima.
Chi volesse saperne qualcosa in più può consultare in proposito i dossier predisposti dal Servizio Studi del Senato n, 71-06 del 2019 e 280 del 2020, nei quali si può leggere testualmente che “Non appare possibile procedere a un raffronto analogo a quello per le Camere basse in quanto in gran parte dei casi i componenti delle Camere alte non sono eletti direttamente dai cittadini e rappresentano istanze di altro tipo (ad esempio, espressione di istanze territoriali, oppure sono nominati su proposta del Governo o con elezioni di secondo grado, ecc.)”.
E, se poi si vogliono proprio sommare i numeri delle nostre due Camere, allora bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di sommare anche quelli di entrambe le Camere degli altri paesi non federali, col che il risultato non cambierebbe di granché.
In tale ipotesi, in Inghilterra (con 1426 parlamentari tra Deputati e Lords) il rapporto sarebbe di un parlamentare ogni 45.935 abitanti, in Spagna (con 616 tra Deputati e Senatori) sarebbe di uno ogni 75.746 abitanti, e in Francia (con 925 tra Deputati e Senatori) sarebbe di uno ogni 72.672 abitanti.
Così procedendo, in Italia, coi 945 parlamentari di oggi, si ha un rapporto di uno ogni 64.004 abitanti, più o meno in linea cogli altri grandi paesi, mentre coi 600 di domani il rapporto sarebbe di un parlamentare ogni 100.806 abitanti, facendoci conquistare ancora una volta il fanalino di coda della rappresentatività.
E tutto ciò senza considerare che andrebbero scorporati dal dato italiano i deputati e i senatori (oggi, rispettivamente, 12 e 6, dopo la riforma 8 e 4) che vengono eletti nei collegi esteri in rappresentanza di quasi cinque milioni di cittadini colà residenti.
Il che mi fa concludere che, se oggi Einaudi potesse esprimersi nell’attuale contesto politico, troverebbe certo il modo di argomentare, come fa da tempo la Fondazione che porta il suo nome, il suo sonoro NO a una riforma costituzionale che riduce la rappresentatività delle nostre istituzioni parlamentari con la risibile scusa del risparmio di un caffè l’anno per ogni italiano.
E qui, se non fossimo in sede referendaria, e quindi in procinto di valutare solo ciò che il Parlamento ha già approvato, si potrebbe anche aprire il discorso sul nostro bicameralismo paritario, per il quale potrebbe tornare utile anche l’insegnamento di Luigi Einaudi, che, nei lavori della Costituente, immaginava una seconda Camera rappresentativa delle Regioni, ma anche delle professionalità esistenti nel Paese.
Ma questo, ovviamente, è un altro discorso, che il NO al referendum potrebbe propiziare a partire dal 21 settembre.
Pluralismo e stato di diritto, se non vogliamo fallire!
di Enzo Palumbo
Ho sempre pensato che pluralismo politico, equilibrio istituzionale e stato di diritto siano coessenziali l’uno all’altro, per cui ciascuno di essi è premessa e conseguenza dell’altro, la sparizione dell’uno vanifica anche l’altro, se c’è già, o lo rende impossibile, se non c’è ancora; per contro, quando entrambi coesistono, concorrono in maniera determinante al benessere della società.
Ne ho trovato la conferma in un bel libro di qualche anno fa (Perché le nazioni falliscono, Il Saggiatore, Milano, 2013), che riporta alla memoria il titolo della principale opera di Adam Smith (La Ricchezza delle Nazioni).
Com’è noto, Adam Smith guardava agli innovativi processi produttivi dell’epoca basati sulla divisione del lavoro con un approccio essenzialmente economicista, emblematicamente rappresentato dalla pagina in cui evoca gli innumerevoli “atti di egoismo” compiuti ogni giorno da milioni di individui che, perseguendo il proprio interesse, finiscono per realizzare inconsapevolmente anche l’interesse generale, facendo così crescere la ricchezza complessiva della società in cui operano.
Scritto da due economisti e politologi – il primo (Daron Acemoglu) americano del MIT di Cambridge, e il secondo (James A. Robinson) inglese ma operante nell’Università di Chicago – questo più recente libro ha un approccio ben più ampio, analizza i processi produttivi nelle varie epoche e in diversissimi territori, e ne individua il successo nel fenomeno della c. d. “distruzione creatrice” generata dai livelli d’innovazione ogni volta introdotti, con continua sostituzione di metodi e prodotti nuovi a quelli correnti; ma guarda anche e forse soprattutto al contesto istituzionale e politico in cui questi processi innovativi possono svilupparsi, individuandolo nella presenza di istituzioni che favoriscano il pluralismo politico e la certezza dei diritti, considerate condizioni essenziali per l’autorinnovamento della società, economica e politica insieme.
Di questo libro qualcuno ha detto che dovrebbe essere utilizzato come una “bibbia” da tenere sempre a portata di mano da parte delle classi dirigenti di società che vogliono progredire o almeno evitare di fallire.
Con dovizia di esempi, questo libro dimostra che la prosperità o la povertà di una nazione non dipendono, come molti sono portati a pensare, da ragioni geografiche, storiche, culturali, sociologiche o religiose, ma piuttosto dalle rispettive istituzioni politiche, che sono in grado di stimolare la crescita di una società o di provocarne il collasso, a seconda che si riesca, oppure no, a mantenere un buon livello di pluralismo istituzionale e di certezza dei diritti individuali e dei corpi intermedi, così creando un contesto politico ed economico inclusivo per gli individui e per i gruppi che la compongono, che si realizza quando nessuno viene escluso aprioristicamente dalla possibilità di sviluppare la propria individualità e di accrescere il proprio benessere e, con esso, quello della propria famiglia, del gruppo sociale cui appartiene e, in definitiva, dell’intera società.
Il pluralismo comporta la necessità di un sufficiente livello di equilibrio istituzionale e di limitazione del potere, e quindi anche capacità di graduale e non violento rinnovamento, mentre il consolidato ruolo della legge regolatrice dei rapporti comporta la ragionevole convinzione che i diritti legalmente acquisiti in un certo momento valgono pure per il prevedibile domani.
Cosicché, se una società è “pluralista e inclusiva”, in cui a ciascun individuo è garantito un ruolo e i suoi diritti vengono preservati anche rispetto al mutare delle stagioni politiche, questa società ha in sé stessa la forza per crescere e prosperare; e se invece è “elitaria ed estrattiva”, nel senso che un piccolo gruppo dirigente, in un certo momento storico, è in grado di estrarre dal tessuto economico e sociale tutto ciò di cui può appropriarsi attribuendolo a sé e ai suoi sostenitori, questa società prima o poi s’impoverisce in capacità umane ed economiche fino a collassare.
L’analisi, che comunque non ha nulla di dogmatico e individua solo una linea di tendenza, attraversa il tempo e lo spazio, prende in esame istituzioni pubbliche e sistemi economici che vanno dall’Impero Romano alla Venezia medievale, dalle civiltà precolombiane alle democrazie americane, dalla Francia prerivoluzionaria alla società postindustriale, dall’impero ottomano e dagli imperi centrali europei alle nuove satrapie mediorientali, dalla Cina dinastica a quella comunista, dall’Africa tribale a quella postcoloniale, dalle democrazie liberali europee a quelle orientali e ancora imperfette succedute all’impero sovietico.
In tutti i casi gli autori riescono a dimostrare che l’affermarsi del pluralismo politico-istituzionale e dello Stato di diritto si accompagna all’estensione del benessere delle popolazioni interessate, mentre la loro attenuazione o addirittura la loro scomparsa provocano caos istituzionale impoverimento economico e malessere sociale e, sfociano spesso in conflitti interni o esterni sino al collasso delle pubbliche istituzioni e al fallimento degli Stati.
Illuminante in proposito è la constatazione da cui gli autori partono all’inizio del libro, quando esaminano nel dettaglio due specifiche realtà territoriali che, trovandosi dalle due parti dello stesso confine e partendo dalle stesse situazioni sotto il profilo territoriale, umano, economico e sociale, sono poi nel tempo divenute diversissime: l’esempio è quello di una stessa cittadina, Nogales, divisa da un confine che, a partire dalla seconda metà dell’800, ne ha collocato una parte nello Stato nord-americano di Arizona, e un’altra parte nello Stato messicano di Sonora,.
Nella prima, quella che ricade negli Stati Uniti, si registrano processi elettorali democratici, istituzioni imparziali, ordine pubblico e diritti proprietari garantiti, servizi pubblici efficienti, alti salari, welfare, tecnologie d’avanguardia, in definitiva una situazione di certezza dei diritti che genera pace sociale, voglia di intraprendere, prosperità diffusa alla quale tutti possono aspirare; nella seconda, quella che appartiene al Messico, si constata un elevato livello d’incertezza nel rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione, con effetti assolutamente opposti; e tutto ciò, pur condividendo il medesimo ambiente naturale, la stessa storia, identiche caratteristiche etniche e addirittura eguali origini familiari.
La spiegazione di così tanta differenziazione tra quei due tipi di società – che gli autori anticipano, e che poi verificheranno in tantissime altre situazioni storiche e ambientali che vengono indagate e descritte nel corso della loro scrupolosissima analisi – sta nel fatto che nella prima società esiste ciò che non c’è nella seconda, e cioè pluralismo istituzionale e limitazione del potere (il che impedisce al governante di turno di appropriarsi delle risorse a suo uso e consumo), e certezza dei diritti che gli individui abbiano nel tempo legittimamente acquisiti (e che nessun governante del futuro oserà mai mettere in discussione); due caratteristiche, queste ultime, che generano in chi condivide lo stesso territorio ragionevoli affidamenti e quindi voglia e capacità di investirvi le proprie energie (umane ed economiche), programmando razionalmente il proprio futuro e quello delle generazioni a venire.
In fondo, se guardiamo alla situazione italiana dopo le tragiche vicende della guerra, anche nel passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, quando ovviamente era fortissima la tentazione di scardinare tutto il preesistente impianto civile e istituzionale, tra le due tendenze che allora emersero – quella della rottura totale col passato e quella del cambiamento nella continuità dello Stato — fu quest’ultima a prevalere, forse anche propiziata dal risultato del referendum istituzionale del 1946, che, mentre aveva fatto sparire lo stabile ancoraggio della Monarchia, aveva anche prudentemente indotto i Costituenti a non recidere le altre radici che legavano la società alla struttura dello Stato, quale si era venuto formando attraverso il processo risorgimentale dell’unità nazionale, almeno sino alla rottura provocata dal fascismo.
Nacque così il grande compromesso della Costituzione repubblicana, che immise nelle tradizionali strutture statuali le nuove spinte d’ispirazione socialista, le metodologie garantiste tipiche del liberalismo, e la diffusione territoriale delle responsabilità cara al popolarismo cattolico, senza tuttavia toccare, almeno nell’immediato, l’impianto giuridico, civile e penale, che sarebbe stato poi, poco alla volta, ammodernato e reso coerente con la nuova Carta fondamentale, attraverso i prudenti adattamenti via via introdotti dalla Corte e dalla legislazione ordinaria.
E, se ora guardiamo alla nostra Costituzione, possiamo dire che essa è un esempio virtuoso di “società inclusiva”, perché disegna e garantisce equilibrio istituzionale, pluralismo politico, ascensore sociale e certezza dei diritti, esorcizzando il pericolo della dittatura della maggioranza (sempre possibile in democrazia) allorché inizia affermando che la sovranità popolare si può esercitare solo nelle forme e nei limiti costituzionali, quando nei suoi primi articoli garantisce i diritti essenziali degli individui e dei corpi sociali, e quando stabilisce che nessuna prestazione personale e patrimoniale può essere imposta se non per legge e che questa, comunque, non può travalicare i principi e le regole costituzionali, la cui osservanza è affidata a un organo terzo che non promana direttamente dalla sovranità popolare ma da ciascuno dei poteri istituzionali, che a loro volta ne subiscono il controllo..
Nel libro che ho citato all’inizio, pubblicato nel 2013 e scritto alquanto prima, l’Italia dell’attualità non poteva comparire, e quindi non vengono trattate le vicende che hanno interessato il nostro Paese nei cinque anni della scorsa legislatura, e ancor meno quelle che si stanno svolgendo nella Legislatura in corso, apertasi col risultato elettorale del 4 marzo di quest’anno.
E tuttavia, se fosse stato scritto in questi giorni, oso pensare che non sarebbe mancato un accenno rispetto al tentativo di stravolgere l’impianto costituzionale che si è consumato nella scorsa Legislatura, e forse anche rispetto allo stravolgimento delle regole dello Stato di Diritto che si sta consumando in quella corrente a iniziativa dei nuovi governanti, inopinatamente catapultati al vertice dello Stato con l’unico conclamato obiettivo di rottamare tutto ciò che un passato giudizioso ci ha consegnato, in una sorta di furia iconoclastica che rischia di gettare, insieme all’acqua sporca delle porcherie che non mancano mai, anche la fragile creatura della nostra Democrazia Liberale.
Ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi, col consenso interessato di alcuni e nell’apparente indifferenza di altri, sembra proprio il tentativo di trasformare la nostra tradizionale società da “inclusiva” a “estrattiva”, estraendone risorse (che neppure ci sono) per destinarle al proprio elettorato, e mettendo in discussione diritti legittimamente acquisiti nel passato all’insegna di un lessico demagogico che, per poterli colpire meglio, li ha definiti “privilegi”.
Senza capire che proprio sulla premessa della stabilità dei diritti acquisiti sono state programmate le esistenze di tante persone e delle loro famiglie, e che, obliterando diritti di oggi, si consentirà ai governanti di domani di fare altrettanto..
Cosicché d’ora in poi nessuno sarà più sicuro di nulla, la nostra società continuerà a impoverirsi di preziose risorse umane in cerca di lidi meno precari, come ormai sta accadendo da qualche anno, e ci avvieremo sulla strada che dall’Arizona ci porta a Sonora.